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mercoledì 5 maggio 2010

presentazione della Storia Aurea racconto in versi di Pier Paolo Di Mino.



“...dicono che
Ulisse
sia tornato…”










L’EdiLet è lieta di invitarvi alla presentazione di

Storia Aurea
di Pier Paolo Di Mino.

Giovedì 20 Maggio alle ore 18
alla Confraternita dell’uva
in via Augusto Dulceri 56/58 (Roma zona Pigneto/Torpignattara)

Interverranno come relatori la poetessa e giornalista Silvia Santirosi e
il poeta e narratore Fabio Zanello.
La presentazione sarà corredata da una mostra tratta dalle illustrazioni del libro di Veronica Leffe

Storia Aurea inaugura la collana editoriale LA NAVE DEI FOLLI, un progetto di letteratura potenziale ed essenziale: certo svago metafisico è assicurato.


IL LIBRO
Un uomo che si perde in continuazione rinuncia presumibilmente a un carattere, quindi a un
destino, circostanziato. Borges reputava quella di Odisseo una delle due metafore essenziali che
la vita ci può e deve suggerire. La Storia Aurea è un racconto in versi che non esita ad
affrontare questa avventura essenziale, quella, detta altrimenti, del nostro drammatico ed
esaltante passaggio per questo mondo: o, come qualcuno deve essersi fatto sfuggire, per
questa valle del fare anima. La Storia Aurea è, infatti, il racconto di quella ricchezza
imperfettibile ed oscura che si trova alla fine di ogni viaggio. Il viaggio che, appunto, è da
sempre quello di Odisseo, con le sue derive, i suoi sbagli imperdonabili e, quindi, con il suo
bagaglio di svagato e leggero sapere: l’arte di costruire cavalli in legno di cipresso per arginare
l’insonnia: un’arma, ovviamente, destinata a fallire per chi dovrà vivere da sveglio; l’arte
scherzosa di indagare l’inconsistenza delle profondità; l’arte, anche, di fingersi un coraggio
studiato con cura per precipitare nello stupore dell’abisso. Di seguito, la collezione di eroi,
donne, bibite, caffè, liquori, voglie, desideri, sogni, tentazioni, incubi, postriboli, porti, città
costantemente eterne, mercati dove si contrabbanda lo scialo per guadagnare lo scialo, la
bellezza, i suoi distillati e veleni, le maschere che fanno di noi ciò che siamo, quelle che ci
trasformano in mostri, le medaglie, le punizioni astute acquistate senza peso nei negozi di
meraviglia, i suicidi, gli amici e allora i tradimenti, l’irresistibile orrore del domicilio che rende
tutto possibile, che fa sì che tutto accada perché un giorno sia una vita, il suo racconto.

Book trailer: http://www.youtube.com/watch?v=TOYdjfnR3j0


L’AUTORE
Pier Paolo Di Mino. Narratore e avventuriero. Ha rocambolescamente diretto la rivista
letteraria ERRE!. Ha pubblicato Il Re Operaio e Visiorama per i tipi de La Scimmia Edizioni.
Ha distrattamente scritto per la tv e il cinema (tra l’altro: Fine pena mai, con Claudio
Santamaria e Valentina Cervi). Si può inoltre inferire quale sia il suo essenziale gioco letterario
dalla solerte attività critica svolta sulle pagine del Paradiso degli Orchi.

L’ILLUSTRATRICE
Veronica Leffe è una illustratrice romana. Alla fine degli anni Novanta decisivo l’incontro
con la redazione letteraria della rivista Erre!, per la quale ha lavorato come art director,
copertinista, illustratrice, e sulla quale ha pubblicato, tra gli altri fumetti, L’imperatore di
Roma, tratto dall’omonimo film dello scomparso regista indipendente Nico D’Alessandria.
La collaborazione con il regista la porta anche ad occuparsi della realizzazione della
locandina del suo film successivo, Aracoeli. Attualmente lavora come copertinista e
illustratrice per La nave dei folli.


LA NAVE DEI FOLLI
È sotto la forma di una nave di folli che qualcuno ha visto questa nostra vita: questo bellissimo
niente, avrebbe detto Angelo Silesio. Una nave che è un sogno, ma che, per essere una nave,
ha pur sempre bisogno di una guida. E qualcuno deve pure avere pensato che questa guida
spetti alla letteratura. Certo qui la letteratura sta per una sorta di macchina che spreme
pensieri, che produce l’essenziale, l’essenza della vita. Ed accogliendo questa declinazione della
parola letteratura che LA NAVE DEI FOLLI, offre ciò che è oggi difficilmente trovabile altrove:
libri muti, racconti in versi, romanzi lirici, impossibili variazioni sui generi, libri di puro svago
metafisico, che si riallacciano al tenace filo rosso che, dai tempi delle raffigurazioni mistiche
nelle grotte di Altamira, attraverso le epopee popolari, le magnifiche concrezioni poetiche del
platonismo, il Rinascimento, il Barocco, fino al Romanticismo con le sue ultime fiammate nel
Dadaismo e nel Surrealismo, vivifica la certezza che la vita sia il luogo dove facciamo la nostra
anima, questo vasto mare che ovunque vai non ne trovi il confine, e di cui LA NAVE DEI FOLLI
è un’avventurosa esploratrice.

Presentazione della Nave dei Folli: http://www.youtube.com/watch?v=gTQ-APijsnA


LA CONFRATERNITA DELL’UVA
via Augusto Dulceri 56/58 ( zona Pigneto/Torpignattara)
Osteria trattoria, ristorante, aperitiveria, sala da sbronza,
ricettacolo di idee confuse, congrega di fannulloni; Deliziosa
cucina siciliana ( e non solo) da accompagnare con ottimi vini
rossi e bianchi. Sarà possibile prenotare la cena chiamando il
numero:
06.27858198

lunedì 22 marzo 2010

L' isola degli infami di Gianna Sarra

Una voce maschile: la voce di un

“naufrago”. La sua spiaggia,

però, è quella di un reality-show. Finché

è sull’Isola, il giovane uomo osserva,

giudica, riflette. È quasi un diario

il suo, divertito e perplesso, perfino

caustico, di un’esperienza non proprio

comune (o forse sì?). Dopo il tanto atteso

cappuccino con cui torna alla «realtà

», la storia comincia davvero. «Che

brutto esaurimento ho rischiato, sono

dimagrito quattordici chili, quanto di

cervello?».

Gianna Sarra racconta, tra divertimento

e disagio, un italiano al tempo

di Vallettopoli, gli presta una voce credibile

al punto da essere inquietante.

Il vero reality comincia fuori dal reality;

e intorno l’Italia è più televisiva

della televisione. Dialoghi d’amore

e disamore, tentazioni e più che tentazioni

(bisessuali), il prezzo di una

fama fragile, l’insospettabile pubblico

del trash, la politica «veltrusconizzata

» – tutto reso da una scrittura veloce,

sincopata, elettrica. Mentre una suora

cerca disperatamente di convertirlo,

l’ex naufrago scivola in un vortice di

pasticci esistenziali, prove inattese e

scandaletti, che potrebbe trasformarlo.

Ma in cosa?

Gianna Sarra ha scritto l’epopea di

un uomo senza qualità degli anni Zero.

Senza moralismi, fa esistere sulla pagina

un personaggio che non può lasciare

freddi. A costo di detestarlo.

Paolo Di Paolo

martedì 16 marzo 2010

L come LIBRI



CINQUE MOTIVI PER CONVINCERSI DELLA NECESSITA’ DEL LIBRO.





1) I libri sono pieni di polvere: salvano dall’igienismo.

2) I dorsi dei libri sono contundenti. Salvano dall’anestesia.

3) I libri, usati come cuscini, salvano dalla psicanalisi.

4) I libri, messi in tasca, ti fanno stare con i piedi per terra.

5) Certi libri, inoltre, salvano dalla salvezza.

venerdì 5 marzo 2010


VIDEO PRESENTAZIONE della STORIA AUREA racconto in versi di Pier Paolo Di Mino


dalla quarta di copertina:
Un uomo che si perde in continuazione
rinuncia presumibilmente a un carattere,
quindi a un destino, circostanziato. Borges
reputava quella di Odisseo una delle due
metafore essenziali che la vita ci può e deve
suggerire. Storia Aurea è un racconto in versi
che non esita ad affrontare questa avventura
essenziale, quella, detta altrimenti, del nostro
drammatico ed esaltante passaggio per questo
mondo: o, come qualcuno deve essersi fatto
sfuggire, per questa valle del fare anima.
Storia Aurea è, infatti, il racconto di quella
ricchezza imperfettibile e oscura che si trova
alla fine di ogni viaggio. Il viaggio che,
appunto, è da sempre quello di Odisseo, con le
sue derive, i suoi sbagli imperdonabili e, quindi,
con il suo bagaglio di svagato e leggero
sapere: l’arte di costruire cavalli in legno di
cipresso per arginare l’insonnia: un’arma,
ovviamente, destinata a fallire per chi dovrà
vivere da sveglio; l’arte scherzosa di indagare
l’inconsistenza delle profondità; l’arte, anche,
di fingersi un coraggio studiato con cura per
precipitare nello stupore dell’abisso. Di seguito,
la collezione di eroi, donne, bibite, caffè,
liquori, voglie, desideri, sogni, tentazioni,
incubi, postriboli, porti, città costantemente
eterne, mercati dove si contrabbanda lo scialo
per guadagnare lo scialo, la bellezza, i suoi
distillati e veleni, le maschere che fanno di noi
ciò che siamo, quelle che ci trasformano in
mostri, le medaglie, le punizioni astute acquistate
senza peso nei negozi di meraviglia, i
suicidi, gli amici e allora i tradimenti, l’irresistibile
orrore del domicilio che rende tutto
possibile, che fa sì che tutto accada perché un
giorno sia una vita, il suo racconto.

lunedì 1 marzo 2010

martedì 23 febbraio 2010

L di LETTERATURA



Marco Onofrio


A Eraldo Miscia, Roma

“Lei dice che le cose vanno male nel campo della letteratura: è un discorso che si fa da quando esiste la letteratura, e non significa nulla. Che i giovani siano presuntuosi e dilettanti è evidente; ma sono mai stati diversi? In questo mestiere – ché è un mestiere – cento e più devono perdere l’anima, perché uno solo di tanto in tanto si santifichi. Se c’è crisi, tanto meglio: si è messi davanti alle proprie responsabilità e costretti a far sul serio”

Cesare Pavese, 30 settembre 1946

«Mistero grandioso e commovente»: la poesia di Aldo Onorati


Marco Onofrio

Ci s’intenda, anzitutto, su un livello critico preliminare, che può valere come soglia del discorso. Dice bene Angelo Marchese quando scrive che il poeta «è tale non tanto per ciò che ha pensato o sentito, ma perché ha parlato. Egli è un creatore non di idee, ma di parole. Tutto il suo genio sta nell’invenzione verbale». È importante, certo, che cosa si dice; ma più importante ancora è come viene detto. L’inimitabile magia della iunctura. Sta tutto lì il segreto. Il mistero del carattere. Il segno distintivo dello stile.

Di Aldo Onorati vorrei sottolineare - oltre dunque al “che cosa”, cioè lo spessore umano dello scrittore e il genuino patrimonio di valori e contenuti che fa da retroterra alla sua arte - anche e soprattutto il “come”, cioè il talento linguistico che rivela e riversa dentro le parole, e il modo in cui le accosta, le fa incontrare, permettendo loro di sprigionarsi. La sua valenza autoriale si avverte anzitutto nell’impronta che egli lascia, attingendone l’essenza, la forza, la pregnanza, su alcuni tra i problemi e i portati più significativi del linguaggio poetico-letterario novecentesco. Al punto che è capace di ricapitolarlo e ricrearlo dall’interno, in modi sempre originali.

Onorati è uno scrittore che sa sempre come sorprendere. E mai per manierismo, per lambiccato compiacimento. È sempre originale perché autentico, “centrato”, a contatto con le fonti della propria creatività (cioè dell’Essere). Creativo perché libero, e libero perché creativo. Proprio giacché dietro l’artista c’è l’uomo che vive e che palpita: l’uomo di carne, di nervi e di sangue. E non c’è artista che tenga, pur quando dotato, se dietro non c’è, corposamente, l’uomo con la sua pasta espressiva, archetipica, organica, esistenziale; l’uomo intero, che sa mantenersi vivo e presente, anche quando crea. L’uomo col bagaglio delle sue esperienze - estri, furori, sentimenti. Con gli incontri che ha avuto. Con il retaggio dei giorni attraversati. Con i suoi occhi eterni da ragazzo, nonostante le rughe incise dal tempo.

La lingua poetica di Onorati (ed è tale anche quando scrive in prosa) non suona mai a vuoto, come talvolta avviene in autori anche conclamati; ma è sempre umana, nel senso pieno del termine: e quindi corposa, plastica, materica, prensile, vera. Si leggano, per conferma, questi versi estratti dalla vasta miniera del suo corpus poetico:

“Ho visto nella notte l’ombra mia stampata dalla luna/Il lago era carne liquefatta”;

“Lasciatemi un’ampolla di vino ed una pèsca/reliquia dell’estate. Quanto mare/al di là degli scogli… ed il sapore di liquirizia del terreno. E noi/sotto il sangue dei gelsi”;

“I microfoni cigolano/al vibrio delle corde. Allo strascichio delle spazzole/sui tamburi, s’appannano/i bubulii lunari dei saxofoni”;

“alza la pioggia gusci/di chiocciole, piumaglia/di tacchini sgozzati”.

La lingua di Onorati è una “creta metamorfica” che mette le cose davanti agli occhi, vive e nude. Una scrittura sintetica e agglutinante, che illumina di squarci e lampi: con due parole sa dipingere un mondo.

Il fatto è che Onorati, buon per lui, appartiene al versante degli autori linguisticamente “grassi”: ricchi, succosi, organici, godibili, corporali. La linea che attraversa Petronio, Apuleio, Dante, Pulci, Folengo, Rabelais … per arrivare fino a quel gigante nascosto del Novecento che è Domenico Rea. Onorati poeta mette d’accordo i poli per molti versi inconciliabili di Omero e Orfeo: concretezza icastica di contenuto e potere magico del canto. Altrove ebbi modo di paragonarlo idealmente, per la potenza ancestrale dei contenuti, a un Verga tradotto però nella felicità espressiva e linguistica di un D’Annunzio.

Dunque una scrittura pregnante, di alta densità semantica e di grande musicalità, che procede spesso per ellissi, per sottrazione: e il “non detto” si fa sentire, parla attraverso il detto che opera, verbo vivo, alla sua rappresentazione. È, peraltro, la soglia d’ombra che illumina la luce. Ed è dal taglio che ricuci la ferita.

Ecco allora questa forma poetica che “rende tattile il vuoto” per consentirne l’esplorazione e, specularmene, “pianta le pietre sull’abisso” per opporvi un divario di resistenza. Onorati stesso ammette che “la parola è materia”. Materia primordiale: cioè articolazione dell’origine, apertura della luce, scintilla che trasale, sillabazione mitica del mondo. Come scrive il succitato D’Annunzio – poeta che Onorati ammira molto – quasi alla fine di Maia-Laus vitae:

“O parole, mitica forza (…) / Io vi trassi con mano/casta e robusta dal gorgo/della prima origine, fresca/come le corolle del mare (…) / Io vi disposi nei modi/dell’arte così che la vita/vostra rivelò le segrete/radici, le innumere fibre/che legano tutta la stirpe/alla Natura sonora (…) Splendete e sonate, o parole,/ in questo Inno che è il vasto/preludio del mio novo canto./ Converse io v’ho novamente/ in sostanza umana, in viva/polpa, in carne della mia carne,/ in vene di sangue e di pianto”.

Parole che noi stessi potremmo apporre in epigrafe a quelle di Onorati; e lui stesso dire delle proprie.

Tuttavia, lo sappiamo, occorre stare attenti con le classificazioni letterarie, spesso fuorvianti e arbitrarie. Lo scrittore da “incasellare”: quasi a depotenziarlo, a renderlo meno pericoloso. Capire l’autore: purché non si traduca in operazione ambigua, riduttiva, frettolosa. Più che capito, a ben vedere, l’autore andrebbe com-preso (nel senso etimologico di “prendere con”); giacché, quanto più è grande, tanto più “non cape” negli schemi entro cui vogliamo imprigionarlo. Va accolto nella sua complessità. Occorre, per quanto possibile, parlare con la sua stessa voce.

Di Onorati si dice che è un buon narratore. Ha fatto evidentemente comodo classificarlo anzitutto come tale. E il poeta? Qualcuno potrebbe obiettare: perché, non è “poeta” quando narra? Certo che lo è. Ma, voglio dire, il poeta che scrive versi? Quello che consapevolmente accoglie ed usa la forma lirica? L’“alter ego” del dantista che incanta le platee di mezzo mondo; e del tenore mancato, che in gioventù studiava canto dal maestro Ranucci? E l’artista sopraffino, distillato dal contatto vivificante con “mostri sacri” del calibro di Petrocchi e Marmorale, all’Università di Roma, attraverso la cui lezione ha potuto maturare un bagaglio quasi inarrivabile di conoscenze metriche, di questioni tecniche, di padronanza alchemica del verbo?

Risponderò con un’altra domanda, che poi, in fondo, tutte le racchiude: e l’autore?

Perché quando uno è autore, intendo autore vero, è inutile e talvolta offensivo imporgli certe classificazioni. Scrive lo stesso Onorati (ed è così, evidentemente, che chiede d’essere inteso): «Io non faccio differenze tra poesia e saggi, perché la matrice unica è l’individuo, ed è impossibile scindere le cose attraverso dati esterni, quali il genere letterario, o la distinzione fra lirica e prosa in base all’accidente».

È vero: quando uno è autore la sua voce, qualunque cosa scriva e comunque la scriva, è unica, inconfondibile, quella. Deve poter bastare un verso o un rigo appena, per dire: è lui, eccolo, si riconosce.

Eppure, fra il verso e il “parlar diffuso” (oratio soluta), ci sono importanti e non eludibili differenze tecniche. La poesia frantuma la consecuzione logico-sintagmatica della prosa. La linearità di quest’ultima è insidiata, nella poesia, da una controspinta che riporta indietro la nostra percezione visiva e acustica. Gli stessi “versi” sono – etimologicamente – “ritorni”, mentre la prosa è un discorso che procede per tutta la riga, in linea retta. Rispetto alla prosa, la poesia valorizza al massimo grado l’insieme dei materiali linguistici. Quelle cose devono esser dette da quelle parole, in quella particolare sequenza, non altrimenti. In poesia, tutto è strettamente necessario. Perciò, non basta andare a capo prima del margine destro del foglio, per fare un verso. La poesia è un valore comunicato attraverso la parola. La parola poetica deve quindi staccarsi dal linguaggio quotidiano; ma senza partire per la tangente (come spesso fanno le avanguardie): deve sempre permettere al lettore di poter dire “Ecco, scriverei questo, se sapessi dirlo in versi”.

La parola poetica di Onorati è così: riesce a esprimere le cose più profonde (verticali o abissali) senza mai smarrire il calore della confidenza, della condivisione, della pietas umana.

È una linfa nutriente di emozioni che avvolgono al di fuori e, insieme, salgono da dentro, riportandoci alla base dell’edificio: alle sorgenti vive dell’essere, alle radici del mondo e dell’uomo. Una poesia che è il perfetto ritratto del suo autore: generosa, magnanima, titanica (nelle discese come nelle ascese), mossa da slanci viscerali di passione, di potente umanità. Sincera fino allo spasimo. Tormentata in una ricerca che non ha mai fine.

Si chiede lo stesso Onorati: “Quando rinuncerò a frugare/la favolosa perla fra i rottami?”.

La sua poesia si propone di “rubare il respiro delle cose” fino a raggiungerle così come sono, “vergini e arcane”, per suonare quale “ancestrale pentagramma nel sangue fluente”, quale “amaro spasimo della vita”. Il poeta è un sensibilissimo “sismografo” dell’esistenza umana, come acutamente nota George Popescu, il traduttore romeno di Onorati, nella Prefazione a Le sillabe confuse dell’amore (1988). E Onorati stesso rivela di avere un volto che, sotto l’apparente indifferenza, “registra ogni gesto, ogni parola, /qualunque sfumatura”.

È forse questa la chiave per capire il suo realismo metamorfico e creaturale. Onorati entra in contatto con le radici terrestri della lingua, vibrando come un rabdomante per le sue energie. Auscultandone i tremiti. Gustandone i sapori e i saperi dimenticati. Raccogliendone i messaggi primordiali.

È un intenso orizzonte umano e terreno, comprensivo pure della “sua” terra laziale, coi luoghi topici dell’esperienza (Orvinio e Albano su tutti), che parla attraverso di lui, quasi Orazio redivivo. Pensiamo, per altri versi, a quel capolavoro letterario e antropologico che sono gli Ominidi, grazie al quale Onorati resterà per sempre nella storia e nella cultura dei Castelli Romani.

Opportunamente i critici hanno parlato di terrestrismo, di misticismo laico, di teologia della creta. “Scrittore religioso” lo definisce Carmelo Marzano “mistico fin dalle radici, sia nei canti dionisiaci d’una forza primigenia, sia nell’adorazione della natura, sia nel dilaniante interrogare il mistero, sia nel contrasto fecondo tra il finito e l’infinito, la miseria e la grandezza dell’uomo”, creatura dilaniata “fra e da contraddittorie verità”, per cui - scrive Onorati - la vita è “dono e condanna/Tutto è complesso, luminoso e oscuro; /anche la verità più certa inganna”. Viene così rovesciato l’assunto hegeliano del reale razionale. La realtà è, piuttosto, l’“orgia dell’assurdo”: il campo sterminato e terribile dove domina il caso, il vuoto del caos, l’abisso dell’irrazionale. La vita stessa è ferocemente, benché teneramente, irragionevole.

La Ragione dunque è impotente: o almeno non onnipotente. “Le risposte non sono venute (…) La ragione ha fallito”, scrive Onorati: così come ogni altro dogma. E ancora: “Dovrà spiegarmi qualcuno il senso di tanto dolore/e della morte a premio finale”.

Andando più nello specifico dei testi, notiamo una poesia versiforme e cangiante come la vita, ricchissima di stilemi e contenuti, che sa ritagliare la sua strada, in modo originale, attraverso un repertorio praticamente sterminato di temi e motivi (doppiato da metri e ritmi funzionali), non facilmente circoscrivibili nei limiti di un’analisi sintetica. Il principio unificante, tuttavia, è la coerenza di forma e contenuto: così plasticamente agile, versatile, consapevole, e armata dei suoi mezzi, che spesso finisce per crearlo, oltre che determinarlo. Si sa, del resto: è cercando le parole che si trovano i pensieri. La poesia è particolarmente abile nel rovesciare l’assunto classico, pur valido a suo modo, del “rem tene, verba sequentur”. E, in questo, è agevolata proprio dai vincoli metroritmici, che accendono e dispiegano, in unità significanti, il potere creativo e ipnotico del suono. Come il pittore che trae la figura non, o non solo, per approssimazione imitativa, dalla forma eidetica che lo suggestiona prima del contatto con la tela, e che più o meno domina nei contenuti mentali; bensì, per evoluzione aperta, dai materiali stessi dell’atto creativo, dalla pasta viva del colore, dal mistero del segno: come work in progress. La poesia sorge dal delicato equilibrio tra i contenuti preesistenti (da cui viene la spinta a scrivere, anche nel tentativo - mai davvero domo, se non per convenzione - di circoscriverne l’oscurità, di portarne a chiarezza il significato) e quelli che nascono solo successivamente alla loro messa in opera, alla loro stesura scritta, alla loro sintesi formale. Il poeta deve sapere e non sapere ciò che sta scrivendo: deve saperlo, cioè, ma non troppo.

Ecco, la forma poetica di Onorati è perfettamente coesa con i contenuti sia primari sia secondari del suo assunto. La stessa scansione metroritmica è, al livello più creativo di formalizzazione, argano e insieme motore di un potente empito lirico-espressivo: ne asseconda gli impulsi magmatici così come i tratti sfumati, i passaggi lievi, i toni, i semitoni ed i silenzi. È una partitura di “piano” e di “forte”, vasta e varia come l’esistenza: l’urlo ed il sussurro ai lati estremi e, tra loro, un campionario foltissimo di gamme intermedie. Il verso è libero ma mai arbitrario, poiché - sull’asse sintagmatico – obbedisce a logiche sue interne, plasmate nell’ordine della pregnanza espressiva e della densità lessicale, dello scavo profondo dei materiali linguisti, ove grumosi, ove levigati; così come – sul piano paradigmatico – sempre “focalizzato”, sempre a contatto con le esigenze noetiche e ritmiche del testo. La forma, dunque, a servizio dei contenuti, di cui s’impronta e s’intride, orientandoli a sua volta, orchestrandoli in larghi movimenti sinfonici, così come in salti dirompenti di cesura, o in tracce liminari di raccordo.

La poesia di Onorati sgorga anzitutto da una predisposizione all’ascolto intenso delle cose, per cui si rende avvertibile il senso del mistero che permea tutto l’universo. E questo senso resta variamente sospeso tra uno sgomento abissale, che fa tremare i polsi, e l’entusiasmo incontenibile, talora liquefatto in gaudio profondo, del sapere e sapersi unici, protagonisti di un “miracolo”, eccezione irripetibile, straordinario incrocio di matrici cosmiche. Che è un po’ come dire “essere o non essere”, sballottati e dibattuti fra gli opposti principi di speranza e tenebra, peraltro consustanziali alla poetica del Nostro: tra la volontà di accettare il mondo “come è” e l’impossibilità sempre risorgente di poterlo fare senza inganno, oltre la tela evanescente delle illusioni. L’uomo è la creatura mortale che si urta rovinosamente fra le “speranze illecite” e l’“orgoglio della creta”, di esser creta. Una dinamica di passi su territori infidi, su terreni lubrici e franosi: calpestando sentieri inaffidabili, ondivaghi, sfumanti: destinati al nulla. Un procedere nel vuoto e senza dove, armati di un pensiero che - portato alle sue estreme conseguenze - si produce come sfondamento tragico della superficie apparente, oltre il suo stesso limite, in cerca della nuda verità. Quella più atroce e inconfessabile, quella più oscena. Ed ecco che cadono, uno dopo l’altro, i muri d’ombra della percezione: come le tende di un sipario che si svela. Lo sguardo cosmico raggiunge la visione della realtà come è davvero, senza infingimenti.

Al di là delle nuvole v’è il cielo azzurro,

al di là dell’azzurro il buio, e nel vuoto

galleggiano satelliti, pianeti ed astri.

La Terra smisurata, ricca di avventure,

dove l’antica creta, Adamo, uomo divenne

fra le mani di Dio,

s’è ritirata al limite dell’universo,

restringendosi in sé, piccola cosa

che ha rinunciato a favole e a lontananze

care ancelle del sogno e del mistero.

I mortali si ritrovano “confinati in un punto senza basi/nell’infinito,/ quasi mosche incollate su una sfera navigante nel cielo,/ nata e soggetta anch’essa a morte, senza vie d’uscita/né di speranza”; mai al riparo, se non per artificio, dalla vertigine barocca e novecentesca, donde

(…) Smarrito il centro e il vertice

(o forse tutto è centro in questo cerchio

Senza circonferenze?), decade ogni misura:

la verità si appanna e si frantuma,

l’eternità dilegua.

Ha notato Giorgio Barberi Squarotti questo continuo dibattersi di Onorati fra una tendenza apocalittica – tradotta in “folgorante rivelazione della condizione corrosa e rovinosa del mondo”, quando non addirittura in profezia del disastro cosmico incombente – e una lode appassionata della vita, nonostante tutto “ancora verde e intensa e àlacre di gesti, di sensazioni, di sentimenti”. Da una parte c’è un titanismo tragico e agonistico, intriso di coscienza universale, a matrice uranica siccome tellurica (le radici del cielo lasciandosi scoprire comunicanti con quelle della terra); dall’altra un certo minimalismo fatto, più che di piccole cose quotidiane, di essenza primigenia elementare: di calore, di sapore, di senso. Un tracciato di fuochi che rischiara percorsi all’interno del vuoto, pieno di tenebra disperante. C’è una coltre fitta che nasconde allo sguardo l’infinita ricchezza dell’infinitesimo; o forse è lo sguardo ad essere offuscato, appannato, obnubilato, nelle facoltà di appercezione. Solo a rischiarare la vista, cioè a lucidare lo sguardo che si rivolge al mondo quale è (e questo fa il poeta), si scopre la santa immensità che dorme nel mistero di ogni cosa. C’è tanto da raccogliere: una miniera di diamanti a disposizione. Fiori e frutti: dolci opalescenti infiorescenze e grappoli carnosi di bellezza, a fasci, a pioggia, a piene mani. Alla cenere fredda del focolare spento (cioè del mondo abbandonato dal conforto della divinità), che si slarga e smargina all’infinito, come la carbonaia buia del firmamento, si contrappone il recinto circoscritto da massi del focolare acceso, vivido di fiamma scoppiettante, a puntellare il vuoto. Proprio entro questo margine di resistenza umana, che in teoria dovrebbe portare alla fraterna solidarietà di tutti gli esseri, restano in gioco “tutte le fedi e tutti i valori”, e dunque ogni residua possibilità di riconoscimento del mondo per l’uomo, così come dell’uomo per il mondo. Ed è nella trepidante creaturalità della parola poetica che può celebrarsi una rievocazione di vita funzionale e, anzi, propedeutica, ad una “ricomposizione di bellezza e di autenticità”. Di origine brasiliana (la nonna paterna era di Säo Paulo) e di identità acquisita profondamente latina, in terra laziale, Onorati è sempre sospeso tra un flusso di gioviale simpatia con il mondo, che lo porta al godimento sensuale delle cose, e lo scollamento ingenerato dal sorriso trafitto e tragico della nostalgia, della saudade, dell’Odisseo che prende commiato (ché il suo destino è ancora andare avanti). Da una parte il vino dolce, limpido e vermiglio, che si liba nella sacralità del rito dionisiaco, come un gesto d’amore incruento, di felice dimenticanza, verso il sangue della terra e della vita; dall’altra lo stesso vino travasato in botti apollinee, se non saturnine, distillato cioè alla luce di una profondissima, vertiginosa, ineludibile meditazione umana e cosmica, che lo rende amaro, denso, raggrumato e spesso triste, riconducendolo perfino, talvolta, al tessuto elementare dell’acqua, un’acqua mercuriale e sapienziale, in una sorta di miracolo di Cana al contrario. Come a dire che bisogna prima intorbidarsi per illimpidirsi, e viceversa, in un continuo andirivieni, osmotico e ondivago, sussultante, fra gli estremi termini del processo psichico, con le sue delicate alchimie, le sue potenti modulazioni, le sue dinamiche di trasformazione. Processo che Onorati rivive in virtù di un doppio movimento, anche stilistico: per un verso convergente, di concentrazione (ed ecco la pulsione lirica, di sapore spesso elegiaco, di filtro e ricapitolazione del vissuto, con quell’esame interiore spietato, rigoroso, sincero fino allo spasimo – poiché nasce dal confronto col pensiero supremo della morte, che conduce l’espressione a vertici di potenza riflessiva –, assecondato dai tagli fulminanti di parole, dai sintagmi ellittici, talora nominali, e dalle concrezioni gnomiche agglutinanti); per l’altro divergente e digressivo, di proliferazione (ed ecco la pulsione narrativa, sviluppata anche per incisi e inserti parentetici). Vita e morte sono raggiunte volta a volta attraverso il loro opposto reciproco (la vita che risorge dal cuore della morte: e la morte che poi sopraggiunge, nel cuore stesso della vita): è fra questi termini complementari che oscilla costantemente il dettato poetico onoratiano.

Donde poi (allorché il poeta decida di aprirsi al flusso di pienezza originaria) sgorga la succosa, carnale, vitigna terrestrità, tutta da godere, e i “battiti convulsi” della vita che “esplode nel furore/di tutti i sensi”, tra i “bagliori del maggio” e il languore opaco del luglio che smemora, assaporando i margini del tempo nella “fragranza/dell’uva che matura”, guardando tutto con occhi “sognanti e vellutati” fino all’“estasi dolce (…) assopimento del pensiero/letargo degli occhi/fumo dell’infinito”; e il senso dell’unità vivente: una la forza “che germina la pietra e la sorgente/il sangue l’urlo, l’estasi e le stelle”; una “l’arteria che dipana il sangue una/la morte la vita una/uno il rantolo del piacere e del dolore”. È uno stesso “invincibile/genio della vita” che illumina “fili d’erba e nuvole”: e “non puoi dire/all’albero di trattener le gemme”, giacché tutto e tutti “sono mossi da un motore/ (…) che li porta all’abisso e li distrugge”.

Avverte allora, Onorati, l’identico “fremito che accomuna (…) ogni creatura prova come io provo/queste comuni sensazioni:/sotto mentite spoglie/identici viviamo sul pianeta/la nostra unica vita, e come io nacqui/da un seme piccolissimo all’involucro/buio d’una placenta/così germoglia il chicco del frumento/e l’uovo fecondato ove il pulcino/pigola subito alla schiusa vita … /Oh, mistero grandioso e commovente!”

Ma a nulla vale, tuttavia, dimenticare la “crudeltà” dei segni cosmici e umani, i “boati/d’ira infinita” e i “tagli di fuoco e sangue”, l’“albero stecchito” e la “ruggine dello scoglio”; o coprire l’“urlo dell’esistenza” come “grido” convulso “di passione e di tormento”. È questo il nucleo irriducibile che riemerge sempre dal silenzio, quando vira dalla pienezza estatica dell’armonia al vuoto abissale della disperazione: svelando, della vita, tutto l’immenso dolore (benché questo rimi, obbligatoriamente, con amore), e dunque l’intima contraddittorietà, pur trapassabile, allo sguardo, nella coincidenza degli opposti. Tra l’“amore e il nulla” c’è la croce che “aspetta” ciascuno di noi in fondo alla strada, giacché “ogni strada conduce al dolore”. Il pensiero di Onorati sembra muoversi intorno a un principio di ispirazione taoista: cerca la luce dentro l’ombra e l’ombra dentro la luce, per dare più forza e valore ad entrambe. Il mondo, benché vigna generosa, e festa variopinta di splendori, può dunque apparire come “errore irrimediabile” e “selva ambigua”; proprio perché si resta sempre impigliati nella dialettica tutto/nulla, che in fondo coincidono nell’uomo: “Dal nulla estinto al nulla del futuro/l’uomo ch’è tutto e nulla”.

Una via di salvezza potrebbe essere quella già ungarettiana del “sentimento del tempo”, che porterebbe infine ad accettare – benché con strazio davvero sanguinante – la caducità, ovvero la trasformazione, come legge stessa della vita: ed ecco la coscienza di essere non altro che un “anello di trapasso/fra i millenni”, mentre “ride sui miei denti il tempo”; ecco, tremendo, questo sapere che “non ci sarà concesso il tempo/d’un desiderio/al solo esprimerlo/che la morte verrà”. Ed è un sapere solo parzialmente lenito dalla dolcezza elegiaca del ricordo, che può illusoriamente vivificare ciò da cui, malgrado tutto, abbiamo saputo suggere il midollo, ma pur ci strazia il cuore: “oh, come il tempo/(divinità crudele) reca in pianto/ogni dolcezza che vivemmo …”

Gli uomini sono “fantasmi viventi”, chicchi di grano “vivi/doloranti ancor prima/di entrare nella macina”.

Chi siamo noi?

Tra l’ombra tenera e l’acqua

creature addolorate

vaghiamo in cerca

dell’impossibile felicità.

Siamo creature “coscienti della fine”. Siamo la polvere dell’universo. Lucciole che lampeggiano un istante nella Storia; la quale è tratta da un “vortice senza ragione”, piena di sangue e di incoerenze, sciagurata ininterrotta carneficina.

E poi c’è Dio, che Onorati cerca prima “fra gli spazi infiniti”, e poi ritrova negli occhi dell’uomo, dove brilla la luce di Cristo. Che è il “più grande, più puro, più uomo di tutti gli uomini”: fermo, al centro della clessidra del Tempo.

E poi, irredimibile ma irrinunciabile, l’amore umano, questo “inspiegabile castigo”. La sete dei baci: la voglia di suggere il velluto della vita “come le api dai fiori più dolci”, fino a farsi venire “i calli alle labbra”.

E la crudele, terrestre dolcezza della donna, anfora di vita, sorgente primigenia di amore dolore e morte.

E il poeta, infine, continuamente sprofondato in un teso e spietato dialogo con se stesso, alla ricerca delle forme essenziali: “Ho parlato con me stesso/come a un intero popolo (…)/ Ho ragionato con Dio/e col nulla (…)/ Ho baciato le onde/e gli alberi,/ ho rubato la linfa/da bocche vergini”.

Il poeta che si misura e si confronta con l’infinito, il tutto che egli abita e che lo abita - fibra risibile del cosmo –, fuori e dentro di sé: “Ho specchiato nel cielo (…)/ l’essere mio selvaggio./ La vita/m’ha racchiuso nel cuore l’universo”.

Il poeta, ancora, che si fa “domande assurde”: “Perché i noccioli hanno tessuto/quei fili gialli (…) perché la sera/si attarda in mezzo ai fiori (…) Perché un canto che non sente alcuno /porta la primavera?”; “Chi fecondò lo spazio vuoto al cosmo?/Chi fu?”; “Quante Galassie ancora vuoi attraversare/asfittico pianeta?”

Il poeta, insomma, che cerca il brivido nativo nella “maestosa alta follia dei suoni”.

Ne scaturisce – come si vede – un grande, intensissimo, struggente poema: una sorta di “umana commedia”, un affresco che dà voce a molte sfumature del nostro silenzio, laddove si conosce verità. È un colloquio pungente e profondissimo col mistero indicibile che è in ogni cosa, dentro e intorno a noi: con i segni del tempo e dello spazio. È a queste latitudini che si raggiunge l’alfabeto delle emozioni. I sentimenti elementari. L’essenza della nostra condizione. L’uomo e l’infinita complessità delle sue aporie. Perché la vita è fatta anche di “sillabe confuse”: resta sempre qualcosa (tanto) che non si può dire.

Scrive infatti Onorati: “Dentro di noi sarà rimasto il meglio/inesprimibile”. E ancora: “Sarà tutta la vita/un grido/e come ogni grido racchiuderà l’indescrivibile;/ così come gli amori parlano/col bacio e le lacrime,/ la vita si esprime a singhiozzi/che hanno cadenze inesplicabili”.

Si rinnova in lui la rincorsa alla “lingua indicibile delle cose mute”, che cercano i poeti di ogni tempo. I poeti veri: non i versificatori o i pennivendoli.

La poesia, infatti, è da sempre tesa alla “lingua nominale” delle origini. Una lingua che incorpori l’oggetto, che lo crei nominandolo, che lo manifesti in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide probabilmente con lo stato edenico delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. Che può tuttavia baluginare attraverso le scintille della parola poetica, quando articola il discorso “Altro”, quel discorso che scende – scrive Stefano Agosti – “verso l’abisso su cui la ragione ha intessuto la sua trama rassicurante, che solo la Forma, non il concetto, riesce a lacerare, recuperando proprio dal fondo la forma interna dell’uomo”.

È l’uomo sub specie aeternitatis che Onorati ha dolorosamente conquistato nella parola, e che ci permette di raggiungere allo sguardo. Laddove scopriamo che, sotto la crosta della terra, le radici di alberi diversi sono intrecciate, e nutrite dalle stesse linfe. E che, anche in superficie, i fiumi si snodano, sì, in corsi e percorsi differenti … ma tutti al mare debbono arrivare.

È questa consapevolezza profonda, umile, mai saccente, il dono ultimo che il poeta ci offre nel suo percorso attraverso gli anni, come frutto di un’esistenza autentica e sanguigna, sempre a contatto con le radici, condensata in una parola che è lievito organico, compiuta sintesi tra istinto e ragione, vita e forma, libero slancio e sorvegliata capacità del limite; una parola che, con la sua purezza limpida d’accento, ha la rara virtù di sorprendere e lasciare ammirati, con rinnovato stupore, come fosse ogni volta l’unica, la prima.


Il bianco nel rosso del fanale:
la fatale chimera di Campana


Marco Onofrio

Sono trascorsi otto decenni dalla sua morte fisica: un divario sempre più incolmabile. Che cosa resta, oggi, di Dino Campana? Che cosa, oltre la spoglia incenerita del suo corpo, oltre il silenzio buio e freddo della sua tomba? Che fine ha fatto la sua voce biologica, che nessun nastro ha mai potuto registrare? (chissà com’era: forse baritonale, a giudicare dalla corporatura che ci testimoniano le foto – Mario Bejor, testimone diretto, la definisce «stentorea, alternata di toni gravi ed acuti» quando cantava canzoni popolari toscane e nenie raccolte in Argentina, mentre Giacomo Natta, altro testimone diretto, la ricorda «limpida e un po’ lamentosa»; e chissà, soprattutto, com’era legata alle sue parole, alle parole della sua poesia: che effetto faceva ascoltarlo leggersi e recitarsi, Genova ad esempio). Resta pochissimo di tutto questo, quasi niente: se non le parole che egli ha scelto vissuto sofferto scritto e trascritto, per giustificare su un piano superiore la sua esistenza e testimoniare del suo passaggio su questa terra, prima di tuffarsi nel «segreto delle stelle» e raggiungere l’«infinità delle morti». I Canti Orfici sono e racchiudono in essenza tutta la sua vita. Lì c’è la grana della sua voce; la radice del suo pensiero, il cuore del suo temperamento. L’ombra inversa della sua presenza, che non esiste più. Le tracce del suo modo di vedere le cose, dei processi del suo pensiero, dei giri che ha fatto il suo sguardo sulle cose del mondo, prima di spegnersi per sempre.
Dal bisogno disperato di colmare questo abisso attraverso il tempo che tutto divora, nasce il tentativo, altrettanto disperato, di leggere quelle tracce: cioè, più semplicemente, di “ascoltare”. Che è quanto lui stesso ci chiede, nel primo dei tre detti-guida che assumiamo, a mo’ di abbrivo, prima di intraprendere il lungo percorso.

Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha diritto di essere ascoltata.

Diritto più che legittimo: tanto più che si lascia ascoltare da sé, proprio in quel “salire” nonostante tutto. Rivendica, cioè, il diritto di essere trattato con obiettività: che lo si lasci battere «alla pari», per dimostrare né più né meno ciò che vale, se vale qualcosa. Questo è il “gesto” che ci chiede, amichevolmente.

Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari. Sono molto modesto e non vi chiedo, amici, altro segno che il gesto.

Ma è anche cosciente del suo essere diverso: irriducibile.

In ogni caso né da vivo e tanto meno da morto si avrà ragione di me.

Perché infatti è un poeta organico, polimorfico, sfuggente, molto più complesso di quanto sembrerebbe all’apparenza. È sempre “oltre”: non si lascia mai trovare laddove è lui stesso – quasi beffardamente – a farsi cercare, depistando ogni facile intenzione, disarmando ogni approccio semplicistico o riduttivo alla straordinaria intensità del suo caso poetico e umano.
Il suo segreto di longevità risiede forse nella sincerità assoluta della sua vicenda di «fanciullo sacrificale»; nell’aver cioè, egli, messo in gioco tutto se stesso, sempre, senza difese, senza risparmio alcuno nel dono di sé, nell’innocenza della propria offerta votiva, nella ricchezza del proprio essere: anche per questo non c’è nessuno schema (neanche l’orfismo, in fondo) capace di con-tenerlo integralmente. Da vivo o da morto, così, la musica non cambia: Campana resta un selvaggio, uno spirito libero, refrattario ad ogni mutilante classificazione, difficilmente inquadrabile. Non si lascia domare: scalpita, sfugge da tutte le parti, ispido e ribelle. Per questo, a differenza di molti suoi contemporanei, rappresenta un «problema aperto», e davvero, come scrive Mario Lunetta, «tante delle questioni da lui poste e rappresentate non sono ancora risolte e archiviate, attendono ancora risposte attive». Tutt’altro che un caso chiuso, dunque.
Ma occorre partire anzitutto dalla vita: la vita di un uomo che – scrive Sebastiano Vassalli – «fu considerato dai contemporanei un prodotto anomalo della natura, uno che ‘non aveva compreso nulla di quel che è il vivere comune’: ed era solo un poeta. (Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, “primitiva”, “barbara”, da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri)».

Dino Campana nasce alle 14.30 del 20 agosto 1885 a Marradi (in provincia di Firenze, ma più vicino a Faenza: tra i verdissimi boschi dell’appennino tosco-emiliano) dal maestro elementare Giovanni e dalla casalinga Francesca Luti. È il primogenito; seguirà, tre anni dopo, Manlio. La madre, stando alla ricostruzione di Vassalli, è chiusa in un guscio di bigotteria nevrotica. È una donna misticheggiante: tiene sempre il rosario tra le mani. Nega affetto sia al marito (debole e succube della moglie), sia a Dino. Che resta segnato per sempre dal rifiuto materno. Lei lo incalza con rimbrotti, prescrizioni, punizioni, divieti. È convinta che Dino sia indemoniato; e allora gli lascia dappertutto, tra oggetti, libri ed effetti personali, santini e immagini sacre. Dino si infuria, rovescia a terra il contenuto dei cassetti, scaraventa dalla finestra tutte le immagini che trova, mentre la madre gli grida addosso sfilze di contumelie. Probabilmente, malgrado il distacco apparente, è una madre possessiva e apprensiva che non accetta la naturale crescita del figlio: che non sia più il bambino-modello («pacifico, bello, grasso, ricciuto, intelligente») che a due anni «diceva l’Ave in francese», rendendola orgogliosa e «da tutti invidiata». Dino rivendica i suoi spazi autonomi d’azione. Per questo, come un leone in gabbia, comincia ad avvertire la bruciante necessità di evadere, cioè di fuggire, dalla ristrettezza di quell’ambito, familiare e non solo, che lo vuole inchiodare a un ruolo non suo, appiccicandogli addosso un’uniforme; e insomma: farlo essere qualcosa a tutti costi (al limite, “matto”: il matto del paese).
Nel 1903 supera da privatista gli esami di ammissione alla terza liceo all’Istituto “Massimo D’Azeglio” di Torino e frequenta l’anno scolastico presso un collegio di Carmagnola. Quello stesso anno si iscrive, senza profitto, all’università di Bologna, facoltà di chimica pura. Tenta inutilmente la carriera militare presso il 40° Reggimento Fanteria, di stanza a Ravenna. Compie un viaggio avventuroso e vagabondo in Ucraina, forse a Odessa, da cui torna nel gennaio 1904. Tra il 1904 e il 1905 è studente di chimica farmaceutica a Firenze, ma conduce vita solitaria e vagabonda per i monti attorno a Marradi. Legge e scrive con intensità. Si porta dietro libri di Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Nietzsche. E intanto cominciano le visite psichiatriche: deve essere matto per forza. Lui reagisce violentemente, e questo rafforza la convinzione dei compaesani, e la conseguente emarginazione.
Nel 1906 tenta la «grande fuga» dal borgo natìo. Arriva in Francia, ma non ha passaporto e la gendarmeria francese lo rimpatria. Viene internato al manicomio di Imola come «psicotico grave». Lo dimettono dopo due mesi, sotto responsabilità paterna. Torna a Marradi scosso e provato dall’esperienza. Viene dichiarato inabile al servizio di leva: ormai è ufficialmente “pazzo”.
Ottobre 1907: parte per l’Argentina imbarcandosi a Genova. In Argentina fa un po’ tutti i mestieri: da mozzo in mare a peon de via (sterratore delle ferrovie). Poi torna in Europa. Viene imprigionato in Belgio per accattonaggio, poi internato nel manicomio di Tournai. Estate 1908: ricompare a Marradi. Tra i boschi dell’Appennino comincia a ordinare prose e frammenti di poesia: «Nel paesaggio toscano collocavo dei ricordi» – dirà lui stesso. Aprile 1909: 18 giorni di manicomio a Castel Pulci, presso Badia a Settimo.
Firenze, dicembre 1913: conosce Papini e Soffici, ai quali consegna il manoscritto de Il più lungo giorno (incunabolo dei Canti Orfici): Soffici lo smarrisce (lo ritroverà nel giugno 1971 la figlia Valeria, consegnandolo a Mario Luzi). A Firenze notano con sussieguo l’apparizione folkloristica di questo bizzarro giovane, barbaro, selvaggio e «uomo dei boschi»: vibrante di poesia come «scossa elettrica» ma assolutamente privo dei requisiti per appartenere alla società letteraria (bon ton, ipocrisia, eleganza, potere economico)…
1914: a Marradi riscrive il libro, in parte a memoria. Da febbraio a maggio è in Svizzera, a Berna, dove cerca di guadagnare i soldi necessari per la stampa. Ritorna e chiede comuque un aiuto a Luigi Bandini. Il 7 giugno firma il contratto e a luglio il volume, col titolo Canti Orfici, esce in mille copie dai torchi del tipografo locale Bruno Ravagli. In autunno è a Firenze per cercare di vendere personalmente il libro. Nel 1915 è ancora in Svizzera, dove lavora come operaio.
Agosto 1916: conosce Sibilla Aleramo, con la quale inizia uno sconvolgente rapporto d’amore. Si fanno del male, si battono e si graffiano. Lei lo chiama «Orfeo folle» con la sua «vorticosa musica» chiusa in petto. Dino alterna momenti di lucidità a fasi di alienazione e furore. È tormentato da emicranie e forme di delirio.
12 gennaio 1918: varca per sempre la sogna del manicomio, a Castel Pulci. Ormai è pazzo davvero. Si sente pieno di correnti magnetiche, capace di comunicare con tutto il mondo e di influenzare le sorti della storia. Si ribattezza da sé col nome Dino Edison. Subisce l’effetto degli elettrochoc. Diventa buono e calmo, ubbidiente com’era da bambino: un demente-modello. Passa il giorno a leggere e … a masturbarsi. Prepara le polpette per gli altri ricoverati; poi passa tra di loro e fa la réclame alle sue polpette, incoraggiandoli a mangiarle.
La morte. Arriva improvvisa e inaspettata. Malattia di dodici ore e agonia di sei. Febbre alta, chiazze rossastre. Poi viso terreo, sudori, vomito, diarrea, sensorio ottuso. Le mani annaspano, vaneggia inquieto. Spira alle 11.45 del 1° marzo 1932, a 46 anni: per setticemia acuta, che si sarebbe prodotta, pare, pungendosi ai genitali con un ferro arrugginito.

Campana è, quant’altri mai, poeta unius libri. I Canti Orfici sono integralmente la sua vita, perché in quelle parole ha messo tutto se stesso, offrendosi inerme, senza ripari o compromessi. Il libro di una vita: il libro come vita. Si pensi per esempio a queste coincidenze: 29 composizioni che il poeta racchiude e pubblica a 29 anni; la prima s’intitola La Notte, come il buio da cui si proviene nascendo e che vela, a posteriori, i primissimi ricordi della propria esistenza; a 7 testi dall’ultimo c’è Pampa, così come 7 sono gli anni che separano la stampa di Marradi dal viaggio compiuto in Argentina; e il testo centrale del libro, il quindicesimo, s’intitola significativamente Firenze (la città che rappresentava il fulcro esistenziale e culturale di Campana). Coincidenze? Forse. Sicuro invece è lo strettissimo legame di autenticità fra arte e vita, e non in senso estetizzante e/o eroico- dannunziano. La sua poesia è scritta con il «sangue alle dita», così come si apre al destino sacrificale del fanciullo che coprirà tutti col suo sangue, alla fine del libro. Per questo, in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914, scrive «ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto». E, sempre nel 1914, scrive a Papini definendosi «l’alchimista supremo che del dolore ha fatto sangue» (si noti il riferimento agli studi di chimica, peraltro infelici: come il resto). Definisce lui stesso i Canti Orfici la tragedia dell’ultimo “Germano” in Italia: «Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)» che in un Paese degenerato come l’Italia – rovinata dalla “barbarie civile” (Campana parla di «brutalità secolare clericale e popolare») – è destinato all’estinzione, e comunque alla sconfitta. Campana, insomma, cerca idealmente una patria non avendone: si protende «verso il paese nuovo (non putrida patria)» dove assistere alla nascita dell’uomo nuovo, libero, felice, trasfigurato.
Nei Canti Orfici c’è in atto la descrizione della prova che deve affrontare il poeta, a nome di tutti, nel passaggio iniziatico dalla notte al giorno, dalla tenebra alla luce, dal «male di vivere» alla gioia di un’armonia ritrovata. La sua «poesia in fuga» è la trascrizione circolare e aperta, dinamica e cinematografica, ondivaga e sussultante, dell’esperienza che del mondo può fare un nomade (fisico e mentale). Come Don Giovanni con le donne, il nomade soffre nel doversi accontentare di un «qui e ora» volta a volta determinato: vorrebbe essere ovunque, evadere dal carcere dei limiti spazio-temporali per abbracciare la condizione dell’Assoluto, occupando simultaneamente tutto lo spazio e tutto il tempo: come Dio. Conquistare, sia pur faticosamente, la visione stereoscopica del cosmo.
Il nomadismo fisico alimenta quello mentale, così come l’occhio interiore accende a sua volta lo sguardo, de-realizzando il modo di vedere le cose. La realtà visibile viene così trasfigurata, diventa epifanica, ebbra di lucentezza simbolica: il poeta “visivo” si trasforma in “visionario”. Da qui discende quasi naturale il punto topico della poetica campaniana, laddove il poeta parla di «secondo stadio dello spirito», lo «stadio mediterraneo»:

La vita quale è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco. (…) Sì: scorrere sopra la vita: questo sarebbe necessario, questa è l’unica arte possibile.
Ed ecco il “sogno” come concetto-ponte che permette di scorrere sopra la vita, abbracciandola interamente, al di là dei limiti del viaggio: elemento osmotico e mercuriale fra tempo-eterno, mutamento-permanenza, divenire-essere, vita-forma. Ed ecco, ancora, il mito del «manoscritto perduto» come compensazione allo scacco del principium individuationis (da cui il nomadismo): il mondo come archetipo del libro. Giacché ogni scrittura è sempre traduzione imperfetta, sbiadita, inefficace dell’Idea: sempre inferiore alla totalità espressiva del dicibile. C’è un divario pressoché incolmabile rispetto al «libro del mondo», all’assoluto inafferrabile della Forma.
Il «sogno della vita in blocco» può liberare un Assoluto evocato sempre dal «di qua»: entro gli stessi limiti fisici dai quali vorrebbe fuggire. D’altra parte, l’estasi è incomunicabile: se anche il poeta riuscisse ad abbracciare il Tutto o l’Eterno, gli mancherebbero parole per descriverli. Le parole umane sono sempre relative. Solo il silenzio, forse. Infatti Campana, così come del «qui e ora», non riesce ad appagarsi di una forma (con la f minuscola). Sente che la scrittura nasce da uno stato di perdita: dal faticosissimo inseguimento dell’Assoluto, della sua Chimera. A questo disagio dà corpo e voce col mito del manoscritto perduto, che gli occorre quasi a proposito: lì proietta e aggancia l’idea della Forma (con la f maiuscola), cioè di una ricostruzione totale del sé attraverso la scrittura. Si costruisce il feticcio di un se stesso pienamente realizzato nella scrittura, almeno una volta: compimento svanito per mala sorte, e per incuria dei suoi nemici fiorentini: qualcosa di cui i Canti Orfici recherebbero soltanto echi, frammenti, ricordi vaghi, pallide tracce.
In realtà Campana non ricostruisce a memoria, ma lavora su minute, abbozzi, copie conservate. Ed è, peraltro, uno sforzo di concentrazione che giova al testo: i Canti Orfici risultano nettamente più maturi e compiuti de Il più lungo giorno. E poi l’originale non è Il più lungo giorno, quanto piuttosto il libro eterno del mondo, con i segni del quale Campana entra a colloquio, in attesa della loro rivelazione epifanica: il linguaggio dell’universo, la musica del vento e del mare, il frastuono e il brusio dell’esistenza e il lavoro dell’uomo (l’uomo immerso nei cicli della natura, la vita che «non chiude»):

Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.

Per questo intrattiene un rapporto privilegiato, di suggestione, di fascinazione, di irresistibile attrazione magnetica, con quella sorta di umbilicus mundi, di fonte archetipica, che egli riconosce in ogni luogo dell’universo, donde vede sorgere e tornare i segni della Forza, la spaventosa e ignota energia della vita, la potenza del divenire: elevando inni dionisiaci alla “creazione”, alla “forza” appunto, all’«anima vivente delle cose», e alla purezza dell’elemento tellurico.
Il progetto messo in atto nei Canti Orfici è dunque quello di comprendere l’essenza di se stessi e del mondo ai livelli più profondi dello spirito. L’arte rivela e vela al tempo stesso la dimensione superiore ed elementare dell’essere. Il simbolismo autentico coincide col vero realismo.
Occorre riscoprire le sorgenti divine dell’uomo, la «scintilla cosmica» del Sé (oltre i limiti dell’Ego), l’io profondo e metapsichico che si attinge nell’atto autenticamente creativo, dove risolvere infine il contrasto fra essere e non essere. Tra le righe dei Canti Orfici s’indovinano le tracce di una «filosofia edenica», realizzabile praticando l’eraclitea «armonia dei contrari». Scrive infatti Campana:

Nel fuggire la stretta oppressione dei contrari si crea l’arte.

L’Eden è il paese della Chimera, eterno e profondo, dove «Io è un altro» perché si perde, desoggettivandosi e abbracciando le profonde radici dell’essere. È lì che tutto può «per un momento almeno ritornar divinamente semplice e uno», e che ci si può sentire «una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome». È da lì che viene il «ricordo che non ricorda nulla», e la musica dolce del ricordo di cui però non si ricorda «neppure una nota», pur sapendo che «si chiama la partenza o il ritorno». Nel paese della Chimera regna e vive, come materia e anima incarnata, la lingua delle origini, dove ogni nome coincide con la cosa. È a questa dimensione, concreta e metafisica al contempo, che aspira il cammino di riconciliazione con il mondo e di superamento del principium individuationis, mediante il potere magico e mantico del suono, della musica, del canto. Recuperare il canto come unione armonica di parola e musica consente di recuperare l’uomo nella sua perduta integrità, nella sua mitica e naturale pienezza espressiva. Per questo Campana chiama orfici i suoi canti.
Lo spazio della poesia come «ultima spiaggia», sorgente di nutrimento spirituale, confine estremo di liberazione, veicolo di compensazione dal disagio della civiltà, e ritorno delle energie rimosse. L’opera come iter salvifico, «piccolo Faust» dalle tenebre della notte al «Più chiaro giorno di Genova», che è tentativo di traduzione del «sogno della vita in blocco». Diventare orfici in Dioniso: riconquistare la primordiale unità attraverso la tenebra della disarmonia, il deserto dell’afflizione, la «notte orficodionisiaca». Campana dice: «la lunga notte piena degli inganni delle varie immagini».
La poesia è “vitale”, cioè nasce dalla febbre della vita. È forma imbevuta di vita, ardente e proteiforme di energia. L’ideale poetico di Campana nasce all’incrocio fra vita e forma, fra apertura e cornice, fra tenebra simbolistica e clarté naturalistica, fra avanguardia e tradizione. L’arte d’avanguardia nasce dal bisogno di offrire forme simboliche alla tecnologia, cioè di rispondere positivamente allo sviluppo meccanico ed elettrotecnico del mondo contemporaneo: vuole fondarsi sul «violento groviglio delle forze nelle città elettriche» (lettera a Papini, maggio 1913). La poesia sorge dalla «febbre elettrica del selciato notturno». Ma il macchinismo e la nuova tematica urbana si collocano in un orizzonte più vasto di trasfigurazione, che dialoga con i segni del cosmo, fra tempo ed eternità. Il percorso di Campana aspira alla liberazione orfica, alla dinamica ascensionale verso una più vera patria (ad es. il Mediterraneo) dove abbracciare, come in Genova, il «più alto palpito» dell’armonia riconquistata. Così, il germano di razza mediterranea, nel suo continuo pendolare fra dionisiaco e apollineo, come a dire fra vita e forma, può apprezzare e, anzi, elevare a ideali poetici due composizioni che egli stesso percepisce agli antipodi: Gilnàra di Montano «cupa profonda orgiastica folle come una musica di zingaro» (lettera a Lebrecht, 26 ottobre 1917), e Dianora di Luisa Giaconi, dove «la strofa liberata dalla multiforme catena, con due o tre assonanze elementari ritenta un più puro amore delle luci e delle forme», esprimendo la sensibilità neo-greca della «vera poesia italiana moderna» (lettera a Novaro, maggio 1916).
Ma forse il suo vero ideale lo esprime a proposito di Anacleto Francini (lettera a Papini, 1915):

Le cose che egli mi ha mostrato rispecchiano la più viva sensibilità moderna pur restando nella linea della più pura tradizione italiana.

Esattamente quanto si era proposto di realizzare con i Canti Orfici. Aprirsi alle suggestioni moderne senza però tradire «quella saldezza della tempra aristocratica che è necessaria per salvare il carattere della letteratura», ovvero l’ideale sublime e alto della grande tradizione toscana (Dante, Petrarca, Leonardo, Michelangelo, Carducci). Anche per questo sceglie Orfeo: perché gli torna utile come «terza via», di sintesi, tra Dioniso e Apollo, per evocare e realizzare la

divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche.

Il sogno vero è plasticità della musica, è concretezza dell’astratto, è realtà metafisica. Infatti Campana è un visionario dell’al di qua: non fotografa una realtà “altra”, ma fissa i principi fondanti della vita «quale è» (il «panorama scheletrico» al di sotto delle fugaci apparenze) per darne una sorta di giustificazione e interpretazione finale.
Ed ecco Genova: la composizione finale del Libro, sia ne Il più lungo giorno che nei Canti Orfici. Il traguardo estremo. L’orizzonte insuperabile. Una delle più intense poesie del Novecento mondiale.
Se il «più chiaro giorno» è il traguardo del viaggio iniziatico e la traduzione del «sogno della vita in blocco», Genova rappresenta il momento in cui quel traguardo sta per essere raggiunto. Si riverbera sulla pagina il senso di un’attesa ansiosa ma fiduciosa per una rivelazione sempre più imminente. L’anima partita si appresta a tornare alla luce da cui era stata separata dall’atto violento del nascere.
Il tempo è sospeso: la nube si è fermata nei cieli. Il sogno è già «arcanamente illustrato»: la realtà è pronta a svelarsi e l’io, divenuto finalmente ricettivo, può uscire dal buio labirinto dei vicoli genovesi per disporsi, in una vasta visione marina e solare, a ricevere la rivelazione suprema.
Basta alzare gli occhi al cielo stellato per innescare la giusta disposizione al compiersi dell’Evento, teatralmente preannunciato dai puntini sospensivi. Ed ecco la celebre quarta strofa. Le stelle: simboli metafisici come le «Chimere nei cieli»: testimoni dell’eterno destino dell’uomo, della «vicenda infaticabile/de le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale»: il corso millenario dell’uomo e del tempo che passa, come il sogno di un’ombra, in un mondo che gli sopravvive. Le stelle-Chimere evocano una salvifica «visione di Grazia», finta dal vento salmastro, che dovrebbe infine coincidere con la definitiva sospensione del tempo per il momento eternamente presente del «più chiaro giorno». L’apparizione è affidata alla musica: il significato ordinario è scompigliato e destrutturato, anche a livello sintattico, per la ricerca faticosa di un “sovrasenso” che ci parli di un’altra dimensione. E il testo diventa inafferrabile, ai limiti dell’afasia. La «visione di Grazia» appartiene a un mondo radicalmente altro, le cui porte vengono appena socchiuse ma restano invalicabili anche per il poeta.
Torniamo alla «vicenda infaticabile» che si svolge «dentro del cielo». È la vita, il mistero dell’esistenza sintetizzato in due potentissimi emblemi: nuvole e stelle. Noi stessi siamo infaticabilmente implicati in questa “vicenda”, crocifissi tra il piano del tempo (le nuvole) e il piano dell’eterno (le stelle). Le nuvole scorrono evanescenti, bianche e fantasmatiche, sotto il velluto nero del cielo notturno, trapunto di stelle, che brilla tra gli squarci del loro passaggio. Anche noi scorriamo come nuvole d’ombra rispetto al «bagliore magnetico» delle stelle, che raccontano con parole di silenzio l’«infinità delle morti». La dimensione delle nuvole (anche se “spiano” il mistero) è quella del naturalismo (la vita «quale è»); le stelle sono veicoli di misticismo; la quintessenza del «sogno della vita in blocco» è rappresentata dal sintagma «dentro del cielo», attraverso cui Campana realizza una nuova dimensione del mondo come praticabilità fluida e aperta, derivante dallo «scorrere sopra la vita» come «unica arte possibile» oltre la «stretta oppressione dei contrari». Ed è solo uno degli indizi di penetrazione assoluta della realtà, che Campana mette in opera nella rivelazione in fieri della quarta strofa, non a caso caratterizzata da cinque “interni”:

- Dentro del cielo serale (v. 56)
- Dentro il vico marino (v. 57)
- Dentro il vico (v. 58)
- Dentro silenzii solenni (v. 79)
- Dentro del cielo stellare (v. 86).

«Dentro del cielo» realizza il paradosso di un interno inesistente, perché cercato e scavato dentro la maggiore esternità; e dunque la circolarità biunivoca fra gli opposti dell’interno e dell’esterno, del finito e dell’infinito, del tempo e dell’eterno. Il mondo è dentro il cielo; il cielo a sua volta è dentro il mondo. Così come «dentro del cielo stellare» siamo immersi noi; e il cielo stellare è dentro di noi. Campana sviluppa e porta avanti in parallelo questi due piani della realtà (quello della dissipazione dionisiaca: naturalistico, spaziale e materiale; e quello della concentrazione apollinea: psicologico, temporale e concettuale) che poi, nella realtà astratta della scrittura, trovano la loro interconnessione continua e fluida su un terzo piano, “sovramentale”, cioè oltresensibile, onirico, metafisico, verso il traguardo di una trasfigurazione “orfica” (apollinea e insieme dionisiaca) del mondo e dell’uomo. Emerge così in superficie il riflesso di un «tempo senza tempo» (che però racchiude e distilla tutto il tempo: oltre l’impaccio del suo scorrimento diacronico, così come, all’altro estremo, oltre la sua negazione in eternità, in struttura sospesa e potenziale) attraverso la dimensione sintetica e sublimata di uno «spazio senza spazio» raggiunto al cuore del «panorama scheletrico» e, ancora, oltrepassato ab imis, fino al fondo primordiale della sua creazione. Che cosa c’è dentro l’incubo della materia opaca? Forse il varco per la più grande luce: la luce della luce, l’essenza della luce: il chiaro che non è di questo mondo. È a tale origine che cerca di attingere il Mito. Un discorso simile riguarda il rapporto fra cultura e natura. La cultura polverosa dei libri cerca il contatto vivificante con la natura, aprendosi al flusso cosmico e ondivago della sua energia fondamentale; la natura a sua volta è chiamata a “riscattarsi” sul piano evolutivo superiore garantitole dall’assimilazione dei segni umani (arte, memoria, storia). L’obiettivo finale è una sintesi alchemica ottenuta per profonda unità metafisica, attraverso cui la cultura ritorni, al colmo della sua sublimazione, natura trasfigurata e riconciliata, portatrice di nuova armonia universale. Natura e cultura insieme: raccolte al vertice sommo delle loro potenzialità, per innescare la grande vampata trasfiguratrice in grado di cambiare lo sguardo all’uomo, e dunque il volto visibile al mondo. È questo il significato orfico del «sogno della vita in blocco».
Ma ecco che il sogno orfico si disfa nell’ultima visione felice, il «grande velario/di diamanti disteso sul crepuscolo»; poi il sole intesse un “sudario” (versione funebre dell’iniziale “velario”) per gli «uomini stanchi», e i viaggiatori, che poco prima si avventuravano fiduciosi per le piazze e le vie di Genova, tra schiamazzi di fanciulli (simbolo positivo di gioia e innocenza ritrovata), ora si trasformano in “ombre” e camminano «terribili e grotteschi come i ciechi».
Il Mito, insomma, si spegne con gli ultimi bagliori del crepuscolo. Il poeta ripiomba nel carcere del tempo. Torna la notte da cui i Canti Orfici avevano preso le mosse. Resta solo l’ultimo fotogramma, la sterminata devastazione cosmica del cielo stellato sulla notte tirrena, nel quale annega in dissolvenza lo sguardo del poeta… Il viaggio della poesia va fatalmente da notte a notte; ogni illusione salvifica è destinata a concludersi nel sangue sacrificale del Fanciullo, raggrumato nel colophon da Withman.
Campana sente di far parte della race of rangers whitmaniana, la «razza dei liberi cacciatori» massacrata a tradimento da un mondo meschino, volgare e violento, che non può e non vuole accogliere le istanze spirituali dell’uomo, la voce originaria della poesia. Cerca di trovare un accordo cosmico fra i tempi storici e i tempi biologici, cioè di assorbire in una più vasta unità universale le manifestazioni e gli effetti generati dal “progresso” nei campi della scienza, della tecnica, della produzione. Può anche provare momentanea esaltazione per lo slancio creativo e il vigore dinamico che si manifestano nell’uomo con l’elettricità, il cinema, il fervore delle navi, dei porti, delle gru, dei tram, dei treni, degli aerei ... Così come per le energie grandiose della terra, del cielo e del mare, degli elementi naturali, nel libero giuoco delle forze fenomeniche del mondo. Ma Genova si conclude con un distacco inequivocabile che sa di nausea, di rifiuto, di sconfitta: la forza culla la «tristezza inconscia» di un futuro non proprio rassicurante (pensiamo che i Canti Orfici vengono stampati negli stessi giorni dell’attentato di Sarajevo e in coincidenza storica con l’inizio della Prima Guerra Mondiale), e così il ritmo è affaticato, e la nube delle ciminiere è un «vomito silente».

Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.

Il colophon da Withman è un atto d’accusa (un modo per dire: voi vi siete macchiati del mio sangue innocente) contro un mondo che lo aveva coperto di sputi – lui, semplice poeta – ma che, soprattutto, avrebbe consentito il massacro generazionale dei “boys”, dei fanciulli sacrificali, sull’altare truculento della Storia.
È anche questo, forse, il significato ultimo della «visione di Grazia», bianca e lieve tra le ali rosse dei fanali.

Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca …
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì …

La «visione di Grazia» è la poesia nel mondo contemporaneo, che lotta faticosamente contro l’invadenza del disumano per mantenersi bianca (cioè pura), e lo è già a stento nel rosso del fanale che la inghiotte, e allora è costretta a salire “su” per abbracciare la dimensione dell’eterno (il cielo stellato) in cui soltanto può sopravvivere. Altrimenti detto: è vano l’esorcismo della modernità, il disperato tentativo di recingere uno spazio in cui la poesia possa resistere all’onticizzazione dell’individuo nella società di massa tecnicizzata (con le sue spietate leggi economiche), e durare come un canto di eternità dell’Uomo nella «Nuda mistica in alto cava/Infinitamente occhiuta devastazione».