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martedì 23 febbraio 2010

«Mistero grandioso e commovente»: la poesia di Aldo Onorati


Marco Onofrio

Ci s’intenda, anzitutto, su un livello critico preliminare, che può valere come soglia del discorso. Dice bene Angelo Marchese quando scrive che il poeta «è tale non tanto per ciò che ha pensato o sentito, ma perché ha parlato. Egli è un creatore non di idee, ma di parole. Tutto il suo genio sta nell’invenzione verbale». È importante, certo, che cosa si dice; ma più importante ancora è come viene detto. L’inimitabile magia della iunctura. Sta tutto lì il segreto. Il mistero del carattere. Il segno distintivo dello stile.

Di Aldo Onorati vorrei sottolineare - oltre dunque al “che cosa”, cioè lo spessore umano dello scrittore e il genuino patrimonio di valori e contenuti che fa da retroterra alla sua arte - anche e soprattutto il “come”, cioè il talento linguistico che rivela e riversa dentro le parole, e il modo in cui le accosta, le fa incontrare, permettendo loro di sprigionarsi. La sua valenza autoriale si avverte anzitutto nell’impronta che egli lascia, attingendone l’essenza, la forza, la pregnanza, su alcuni tra i problemi e i portati più significativi del linguaggio poetico-letterario novecentesco. Al punto che è capace di ricapitolarlo e ricrearlo dall’interno, in modi sempre originali.

Onorati è uno scrittore che sa sempre come sorprendere. E mai per manierismo, per lambiccato compiacimento. È sempre originale perché autentico, “centrato”, a contatto con le fonti della propria creatività (cioè dell’Essere). Creativo perché libero, e libero perché creativo. Proprio giacché dietro l’artista c’è l’uomo che vive e che palpita: l’uomo di carne, di nervi e di sangue. E non c’è artista che tenga, pur quando dotato, se dietro non c’è, corposamente, l’uomo con la sua pasta espressiva, archetipica, organica, esistenziale; l’uomo intero, che sa mantenersi vivo e presente, anche quando crea. L’uomo col bagaglio delle sue esperienze - estri, furori, sentimenti. Con gli incontri che ha avuto. Con il retaggio dei giorni attraversati. Con i suoi occhi eterni da ragazzo, nonostante le rughe incise dal tempo.

La lingua poetica di Onorati (ed è tale anche quando scrive in prosa) non suona mai a vuoto, come talvolta avviene in autori anche conclamati; ma è sempre umana, nel senso pieno del termine: e quindi corposa, plastica, materica, prensile, vera. Si leggano, per conferma, questi versi estratti dalla vasta miniera del suo corpus poetico:

“Ho visto nella notte l’ombra mia stampata dalla luna/Il lago era carne liquefatta”;

“Lasciatemi un’ampolla di vino ed una pèsca/reliquia dell’estate. Quanto mare/al di là degli scogli… ed il sapore di liquirizia del terreno. E noi/sotto il sangue dei gelsi”;

“I microfoni cigolano/al vibrio delle corde. Allo strascichio delle spazzole/sui tamburi, s’appannano/i bubulii lunari dei saxofoni”;

“alza la pioggia gusci/di chiocciole, piumaglia/di tacchini sgozzati”.

La lingua di Onorati è una “creta metamorfica” che mette le cose davanti agli occhi, vive e nude. Una scrittura sintetica e agglutinante, che illumina di squarci e lampi: con due parole sa dipingere un mondo.

Il fatto è che Onorati, buon per lui, appartiene al versante degli autori linguisticamente “grassi”: ricchi, succosi, organici, godibili, corporali. La linea che attraversa Petronio, Apuleio, Dante, Pulci, Folengo, Rabelais … per arrivare fino a quel gigante nascosto del Novecento che è Domenico Rea. Onorati poeta mette d’accordo i poli per molti versi inconciliabili di Omero e Orfeo: concretezza icastica di contenuto e potere magico del canto. Altrove ebbi modo di paragonarlo idealmente, per la potenza ancestrale dei contenuti, a un Verga tradotto però nella felicità espressiva e linguistica di un D’Annunzio.

Dunque una scrittura pregnante, di alta densità semantica e di grande musicalità, che procede spesso per ellissi, per sottrazione: e il “non detto” si fa sentire, parla attraverso il detto che opera, verbo vivo, alla sua rappresentazione. È, peraltro, la soglia d’ombra che illumina la luce. Ed è dal taglio che ricuci la ferita.

Ecco allora questa forma poetica che “rende tattile il vuoto” per consentirne l’esplorazione e, specularmene, “pianta le pietre sull’abisso” per opporvi un divario di resistenza. Onorati stesso ammette che “la parola è materia”. Materia primordiale: cioè articolazione dell’origine, apertura della luce, scintilla che trasale, sillabazione mitica del mondo. Come scrive il succitato D’Annunzio – poeta che Onorati ammira molto – quasi alla fine di Maia-Laus vitae:

“O parole, mitica forza (…) / Io vi trassi con mano/casta e robusta dal gorgo/della prima origine, fresca/come le corolle del mare (…) / Io vi disposi nei modi/dell’arte così che la vita/vostra rivelò le segrete/radici, le innumere fibre/che legano tutta la stirpe/alla Natura sonora (…) Splendete e sonate, o parole,/ in questo Inno che è il vasto/preludio del mio novo canto./ Converse io v’ho novamente/ in sostanza umana, in viva/polpa, in carne della mia carne,/ in vene di sangue e di pianto”.

Parole che noi stessi potremmo apporre in epigrafe a quelle di Onorati; e lui stesso dire delle proprie.

Tuttavia, lo sappiamo, occorre stare attenti con le classificazioni letterarie, spesso fuorvianti e arbitrarie. Lo scrittore da “incasellare”: quasi a depotenziarlo, a renderlo meno pericoloso. Capire l’autore: purché non si traduca in operazione ambigua, riduttiva, frettolosa. Più che capito, a ben vedere, l’autore andrebbe com-preso (nel senso etimologico di “prendere con”); giacché, quanto più è grande, tanto più “non cape” negli schemi entro cui vogliamo imprigionarlo. Va accolto nella sua complessità. Occorre, per quanto possibile, parlare con la sua stessa voce.

Di Onorati si dice che è un buon narratore. Ha fatto evidentemente comodo classificarlo anzitutto come tale. E il poeta? Qualcuno potrebbe obiettare: perché, non è “poeta” quando narra? Certo che lo è. Ma, voglio dire, il poeta che scrive versi? Quello che consapevolmente accoglie ed usa la forma lirica? L’“alter ego” del dantista che incanta le platee di mezzo mondo; e del tenore mancato, che in gioventù studiava canto dal maestro Ranucci? E l’artista sopraffino, distillato dal contatto vivificante con “mostri sacri” del calibro di Petrocchi e Marmorale, all’Università di Roma, attraverso la cui lezione ha potuto maturare un bagaglio quasi inarrivabile di conoscenze metriche, di questioni tecniche, di padronanza alchemica del verbo?

Risponderò con un’altra domanda, che poi, in fondo, tutte le racchiude: e l’autore?

Perché quando uno è autore, intendo autore vero, è inutile e talvolta offensivo imporgli certe classificazioni. Scrive lo stesso Onorati (ed è così, evidentemente, che chiede d’essere inteso): «Io non faccio differenze tra poesia e saggi, perché la matrice unica è l’individuo, ed è impossibile scindere le cose attraverso dati esterni, quali il genere letterario, o la distinzione fra lirica e prosa in base all’accidente».

È vero: quando uno è autore la sua voce, qualunque cosa scriva e comunque la scriva, è unica, inconfondibile, quella. Deve poter bastare un verso o un rigo appena, per dire: è lui, eccolo, si riconosce.

Eppure, fra il verso e il “parlar diffuso” (oratio soluta), ci sono importanti e non eludibili differenze tecniche. La poesia frantuma la consecuzione logico-sintagmatica della prosa. La linearità di quest’ultima è insidiata, nella poesia, da una controspinta che riporta indietro la nostra percezione visiva e acustica. Gli stessi “versi” sono – etimologicamente – “ritorni”, mentre la prosa è un discorso che procede per tutta la riga, in linea retta. Rispetto alla prosa, la poesia valorizza al massimo grado l’insieme dei materiali linguistici. Quelle cose devono esser dette da quelle parole, in quella particolare sequenza, non altrimenti. In poesia, tutto è strettamente necessario. Perciò, non basta andare a capo prima del margine destro del foglio, per fare un verso. La poesia è un valore comunicato attraverso la parola. La parola poetica deve quindi staccarsi dal linguaggio quotidiano; ma senza partire per la tangente (come spesso fanno le avanguardie): deve sempre permettere al lettore di poter dire “Ecco, scriverei questo, se sapessi dirlo in versi”.

La parola poetica di Onorati è così: riesce a esprimere le cose più profonde (verticali o abissali) senza mai smarrire il calore della confidenza, della condivisione, della pietas umana.

È una linfa nutriente di emozioni che avvolgono al di fuori e, insieme, salgono da dentro, riportandoci alla base dell’edificio: alle sorgenti vive dell’essere, alle radici del mondo e dell’uomo. Una poesia che è il perfetto ritratto del suo autore: generosa, magnanima, titanica (nelle discese come nelle ascese), mossa da slanci viscerali di passione, di potente umanità. Sincera fino allo spasimo. Tormentata in una ricerca che non ha mai fine.

Si chiede lo stesso Onorati: “Quando rinuncerò a frugare/la favolosa perla fra i rottami?”.

La sua poesia si propone di “rubare il respiro delle cose” fino a raggiungerle così come sono, “vergini e arcane”, per suonare quale “ancestrale pentagramma nel sangue fluente”, quale “amaro spasimo della vita”. Il poeta è un sensibilissimo “sismografo” dell’esistenza umana, come acutamente nota George Popescu, il traduttore romeno di Onorati, nella Prefazione a Le sillabe confuse dell’amore (1988). E Onorati stesso rivela di avere un volto che, sotto l’apparente indifferenza, “registra ogni gesto, ogni parola, /qualunque sfumatura”.

È forse questa la chiave per capire il suo realismo metamorfico e creaturale. Onorati entra in contatto con le radici terrestri della lingua, vibrando come un rabdomante per le sue energie. Auscultandone i tremiti. Gustandone i sapori e i saperi dimenticati. Raccogliendone i messaggi primordiali.

È un intenso orizzonte umano e terreno, comprensivo pure della “sua” terra laziale, coi luoghi topici dell’esperienza (Orvinio e Albano su tutti), che parla attraverso di lui, quasi Orazio redivivo. Pensiamo, per altri versi, a quel capolavoro letterario e antropologico che sono gli Ominidi, grazie al quale Onorati resterà per sempre nella storia e nella cultura dei Castelli Romani.

Opportunamente i critici hanno parlato di terrestrismo, di misticismo laico, di teologia della creta. “Scrittore religioso” lo definisce Carmelo Marzano “mistico fin dalle radici, sia nei canti dionisiaci d’una forza primigenia, sia nell’adorazione della natura, sia nel dilaniante interrogare il mistero, sia nel contrasto fecondo tra il finito e l’infinito, la miseria e la grandezza dell’uomo”, creatura dilaniata “fra e da contraddittorie verità”, per cui - scrive Onorati - la vita è “dono e condanna/Tutto è complesso, luminoso e oscuro; /anche la verità più certa inganna”. Viene così rovesciato l’assunto hegeliano del reale razionale. La realtà è, piuttosto, l’“orgia dell’assurdo”: il campo sterminato e terribile dove domina il caso, il vuoto del caos, l’abisso dell’irrazionale. La vita stessa è ferocemente, benché teneramente, irragionevole.

La Ragione dunque è impotente: o almeno non onnipotente. “Le risposte non sono venute (…) La ragione ha fallito”, scrive Onorati: così come ogni altro dogma. E ancora: “Dovrà spiegarmi qualcuno il senso di tanto dolore/e della morte a premio finale”.

Andando più nello specifico dei testi, notiamo una poesia versiforme e cangiante come la vita, ricchissima di stilemi e contenuti, che sa ritagliare la sua strada, in modo originale, attraverso un repertorio praticamente sterminato di temi e motivi (doppiato da metri e ritmi funzionali), non facilmente circoscrivibili nei limiti di un’analisi sintetica. Il principio unificante, tuttavia, è la coerenza di forma e contenuto: così plasticamente agile, versatile, consapevole, e armata dei suoi mezzi, che spesso finisce per crearlo, oltre che determinarlo. Si sa, del resto: è cercando le parole che si trovano i pensieri. La poesia è particolarmente abile nel rovesciare l’assunto classico, pur valido a suo modo, del “rem tene, verba sequentur”. E, in questo, è agevolata proprio dai vincoli metroritmici, che accendono e dispiegano, in unità significanti, il potere creativo e ipnotico del suono. Come il pittore che trae la figura non, o non solo, per approssimazione imitativa, dalla forma eidetica che lo suggestiona prima del contatto con la tela, e che più o meno domina nei contenuti mentali; bensì, per evoluzione aperta, dai materiali stessi dell’atto creativo, dalla pasta viva del colore, dal mistero del segno: come work in progress. La poesia sorge dal delicato equilibrio tra i contenuti preesistenti (da cui viene la spinta a scrivere, anche nel tentativo - mai davvero domo, se non per convenzione - di circoscriverne l’oscurità, di portarne a chiarezza il significato) e quelli che nascono solo successivamente alla loro messa in opera, alla loro stesura scritta, alla loro sintesi formale. Il poeta deve sapere e non sapere ciò che sta scrivendo: deve saperlo, cioè, ma non troppo.

Ecco, la forma poetica di Onorati è perfettamente coesa con i contenuti sia primari sia secondari del suo assunto. La stessa scansione metroritmica è, al livello più creativo di formalizzazione, argano e insieme motore di un potente empito lirico-espressivo: ne asseconda gli impulsi magmatici così come i tratti sfumati, i passaggi lievi, i toni, i semitoni ed i silenzi. È una partitura di “piano” e di “forte”, vasta e varia come l’esistenza: l’urlo ed il sussurro ai lati estremi e, tra loro, un campionario foltissimo di gamme intermedie. Il verso è libero ma mai arbitrario, poiché - sull’asse sintagmatico – obbedisce a logiche sue interne, plasmate nell’ordine della pregnanza espressiva e della densità lessicale, dello scavo profondo dei materiali linguisti, ove grumosi, ove levigati; così come – sul piano paradigmatico – sempre “focalizzato”, sempre a contatto con le esigenze noetiche e ritmiche del testo. La forma, dunque, a servizio dei contenuti, di cui s’impronta e s’intride, orientandoli a sua volta, orchestrandoli in larghi movimenti sinfonici, così come in salti dirompenti di cesura, o in tracce liminari di raccordo.

La poesia di Onorati sgorga anzitutto da una predisposizione all’ascolto intenso delle cose, per cui si rende avvertibile il senso del mistero che permea tutto l’universo. E questo senso resta variamente sospeso tra uno sgomento abissale, che fa tremare i polsi, e l’entusiasmo incontenibile, talora liquefatto in gaudio profondo, del sapere e sapersi unici, protagonisti di un “miracolo”, eccezione irripetibile, straordinario incrocio di matrici cosmiche. Che è un po’ come dire “essere o non essere”, sballottati e dibattuti fra gli opposti principi di speranza e tenebra, peraltro consustanziali alla poetica del Nostro: tra la volontà di accettare il mondo “come è” e l’impossibilità sempre risorgente di poterlo fare senza inganno, oltre la tela evanescente delle illusioni. L’uomo è la creatura mortale che si urta rovinosamente fra le “speranze illecite” e l’“orgoglio della creta”, di esser creta. Una dinamica di passi su territori infidi, su terreni lubrici e franosi: calpestando sentieri inaffidabili, ondivaghi, sfumanti: destinati al nulla. Un procedere nel vuoto e senza dove, armati di un pensiero che - portato alle sue estreme conseguenze - si produce come sfondamento tragico della superficie apparente, oltre il suo stesso limite, in cerca della nuda verità. Quella più atroce e inconfessabile, quella più oscena. Ed ecco che cadono, uno dopo l’altro, i muri d’ombra della percezione: come le tende di un sipario che si svela. Lo sguardo cosmico raggiunge la visione della realtà come è davvero, senza infingimenti.

Al di là delle nuvole v’è il cielo azzurro,

al di là dell’azzurro il buio, e nel vuoto

galleggiano satelliti, pianeti ed astri.

La Terra smisurata, ricca di avventure,

dove l’antica creta, Adamo, uomo divenne

fra le mani di Dio,

s’è ritirata al limite dell’universo,

restringendosi in sé, piccola cosa

che ha rinunciato a favole e a lontananze

care ancelle del sogno e del mistero.

I mortali si ritrovano “confinati in un punto senza basi/nell’infinito,/ quasi mosche incollate su una sfera navigante nel cielo,/ nata e soggetta anch’essa a morte, senza vie d’uscita/né di speranza”; mai al riparo, se non per artificio, dalla vertigine barocca e novecentesca, donde

(…) Smarrito il centro e il vertice

(o forse tutto è centro in questo cerchio

Senza circonferenze?), decade ogni misura:

la verità si appanna e si frantuma,

l’eternità dilegua.

Ha notato Giorgio Barberi Squarotti questo continuo dibattersi di Onorati fra una tendenza apocalittica – tradotta in “folgorante rivelazione della condizione corrosa e rovinosa del mondo”, quando non addirittura in profezia del disastro cosmico incombente – e una lode appassionata della vita, nonostante tutto “ancora verde e intensa e àlacre di gesti, di sensazioni, di sentimenti”. Da una parte c’è un titanismo tragico e agonistico, intriso di coscienza universale, a matrice uranica siccome tellurica (le radici del cielo lasciandosi scoprire comunicanti con quelle della terra); dall’altra un certo minimalismo fatto, più che di piccole cose quotidiane, di essenza primigenia elementare: di calore, di sapore, di senso. Un tracciato di fuochi che rischiara percorsi all’interno del vuoto, pieno di tenebra disperante. C’è una coltre fitta che nasconde allo sguardo l’infinita ricchezza dell’infinitesimo; o forse è lo sguardo ad essere offuscato, appannato, obnubilato, nelle facoltà di appercezione. Solo a rischiarare la vista, cioè a lucidare lo sguardo che si rivolge al mondo quale è (e questo fa il poeta), si scopre la santa immensità che dorme nel mistero di ogni cosa. C’è tanto da raccogliere: una miniera di diamanti a disposizione. Fiori e frutti: dolci opalescenti infiorescenze e grappoli carnosi di bellezza, a fasci, a pioggia, a piene mani. Alla cenere fredda del focolare spento (cioè del mondo abbandonato dal conforto della divinità), che si slarga e smargina all’infinito, come la carbonaia buia del firmamento, si contrappone il recinto circoscritto da massi del focolare acceso, vivido di fiamma scoppiettante, a puntellare il vuoto. Proprio entro questo margine di resistenza umana, che in teoria dovrebbe portare alla fraterna solidarietà di tutti gli esseri, restano in gioco “tutte le fedi e tutti i valori”, e dunque ogni residua possibilità di riconoscimento del mondo per l’uomo, così come dell’uomo per il mondo. Ed è nella trepidante creaturalità della parola poetica che può celebrarsi una rievocazione di vita funzionale e, anzi, propedeutica, ad una “ricomposizione di bellezza e di autenticità”. Di origine brasiliana (la nonna paterna era di Säo Paulo) e di identità acquisita profondamente latina, in terra laziale, Onorati è sempre sospeso tra un flusso di gioviale simpatia con il mondo, che lo porta al godimento sensuale delle cose, e lo scollamento ingenerato dal sorriso trafitto e tragico della nostalgia, della saudade, dell’Odisseo che prende commiato (ché il suo destino è ancora andare avanti). Da una parte il vino dolce, limpido e vermiglio, che si liba nella sacralità del rito dionisiaco, come un gesto d’amore incruento, di felice dimenticanza, verso il sangue della terra e della vita; dall’altra lo stesso vino travasato in botti apollinee, se non saturnine, distillato cioè alla luce di una profondissima, vertiginosa, ineludibile meditazione umana e cosmica, che lo rende amaro, denso, raggrumato e spesso triste, riconducendolo perfino, talvolta, al tessuto elementare dell’acqua, un’acqua mercuriale e sapienziale, in una sorta di miracolo di Cana al contrario. Come a dire che bisogna prima intorbidarsi per illimpidirsi, e viceversa, in un continuo andirivieni, osmotico e ondivago, sussultante, fra gli estremi termini del processo psichico, con le sue delicate alchimie, le sue potenti modulazioni, le sue dinamiche di trasformazione. Processo che Onorati rivive in virtù di un doppio movimento, anche stilistico: per un verso convergente, di concentrazione (ed ecco la pulsione lirica, di sapore spesso elegiaco, di filtro e ricapitolazione del vissuto, con quell’esame interiore spietato, rigoroso, sincero fino allo spasimo – poiché nasce dal confronto col pensiero supremo della morte, che conduce l’espressione a vertici di potenza riflessiva –, assecondato dai tagli fulminanti di parole, dai sintagmi ellittici, talora nominali, e dalle concrezioni gnomiche agglutinanti); per l’altro divergente e digressivo, di proliferazione (ed ecco la pulsione narrativa, sviluppata anche per incisi e inserti parentetici). Vita e morte sono raggiunte volta a volta attraverso il loro opposto reciproco (la vita che risorge dal cuore della morte: e la morte che poi sopraggiunge, nel cuore stesso della vita): è fra questi termini complementari che oscilla costantemente il dettato poetico onoratiano.

Donde poi (allorché il poeta decida di aprirsi al flusso di pienezza originaria) sgorga la succosa, carnale, vitigna terrestrità, tutta da godere, e i “battiti convulsi” della vita che “esplode nel furore/di tutti i sensi”, tra i “bagliori del maggio” e il languore opaco del luglio che smemora, assaporando i margini del tempo nella “fragranza/dell’uva che matura”, guardando tutto con occhi “sognanti e vellutati” fino all’“estasi dolce (…) assopimento del pensiero/letargo degli occhi/fumo dell’infinito”; e il senso dell’unità vivente: una la forza “che germina la pietra e la sorgente/il sangue l’urlo, l’estasi e le stelle”; una “l’arteria che dipana il sangue una/la morte la vita una/uno il rantolo del piacere e del dolore”. È uno stesso “invincibile/genio della vita” che illumina “fili d’erba e nuvole”: e “non puoi dire/all’albero di trattener le gemme”, giacché tutto e tutti “sono mossi da un motore/ (…) che li porta all’abisso e li distrugge”.

Avverte allora, Onorati, l’identico “fremito che accomuna (…) ogni creatura prova come io provo/queste comuni sensazioni:/sotto mentite spoglie/identici viviamo sul pianeta/la nostra unica vita, e come io nacqui/da un seme piccolissimo all’involucro/buio d’una placenta/così germoglia il chicco del frumento/e l’uovo fecondato ove il pulcino/pigola subito alla schiusa vita … /Oh, mistero grandioso e commovente!”

Ma a nulla vale, tuttavia, dimenticare la “crudeltà” dei segni cosmici e umani, i “boati/d’ira infinita” e i “tagli di fuoco e sangue”, l’“albero stecchito” e la “ruggine dello scoglio”; o coprire l’“urlo dell’esistenza” come “grido” convulso “di passione e di tormento”. È questo il nucleo irriducibile che riemerge sempre dal silenzio, quando vira dalla pienezza estatica dell’armonia al vuoto abissale della disperazione: svelando, della vita, tutto l’immenso dolore (benché questo rimi, obbligatoriamente, con amore), e dunque l’intima contraddittorietà, pur trapassabile, allo sguardo, nella coincidenza degli opposti. Tra l’“amore e il nulla” c’è la croce che “aspetta” ciascuno di noi in fondo alla strada, giacché “ogni strada conduce al dolore”. Il pensiero di Onorati sembra muoversi intorno a un principio di ispirazione taoista: cerca la luce dentro l’ombra e l’ombra dentro la luce, per dare più forza e valore ad entrambe. Il mondo, benché vigna generosa, e festa variopinta di splendori, può dunque apparire come “errore irrimediabile” e “selva ambigua”; proprio perché si resta sempre impigliati nella dialettica tutto/nulla, che in fondo coincidono nell’uomo: “Dal nulla estinto al nulla del futuro/l’uomo ch’è tutto e nulla”.

Una via di salvezza potrebbe essere quella già ungarettiana del “sentimento del tempo”, che porterebbe infine ad accettare – benché con strazio davvero sanguinante – la caducità, ovvero la trasformazione, come legge stessa della vita: ed ecco la coscienza di essere non altro che un “anello di trapasso/fra i millenni”, mentre “ride sui miei denti il tempo”; ecco, tremendo, questo sapere che “non ci sarà concesso il tempo/d’un desiderio/al solo esprimerlo/che la morte verrà”. Ed è un sapere solo parzialmente lenito dalla dolcezza elegiaca del ricordo, che può illusoriamente vivificare ciò da cui, malgrado tutto, abbiamo saputo suggere il midollo, ma pur ci strazia il cuore: “oh, come il tempo/(divinità crudele) reca in pianto/ogni dolcezza che vivemmo …”

Gli uomini sono “fantasmi viventi”, chicchi di grano “vivi/doloranti ancor prima/di entrare nella macina”.

Chi siamo noi?

Tra l’ombra tenera e l’acqua

creature addolorate

vaghiamo in cerca

dell’impossibile felicità.

Siamo creature “coscienti della fine”. Siamo la polvere dell’universo. Lucciole che lampeggiano un istante nella Storia; la quale è tratta da un “vortice senza ragione”, piena di sangue e di incoerenze, sciagurata ininterrotta carneficina.

E poi c’è Dio, che Onorati cerca prima “fra gli spazi infiniti”, e poi ritrova negli occhi dell’uomo, dove brilla la luce di Cristo. Che è il “più grande, più puro, più uomo di tutti gli uomini”: fermo, al centro della clessidra del Tempo.

E poi, irredimibile ma irrinunciabile, l’amore umano, questo “inspiegabile castigo”. La sete dei baci: la voglia di suggere il velluto della vita “come le api dai fiori più dolci”, fino a farsi venire “i calli alle labbra”.

E la crudele, terrestre dolcezza della donna, anfora di vita, sorgente primigenia di amore dolore e morte.

E il poeta, infine, continuamente sprofondato in un teso e spietato dialogo con se stesso, alla ricerca delle forme essenziali: “Ho parlato con me stesso/come a un intero popolo (…)/ Ho ragionato con Dio/e col nulla (…)/ Ho baciato le onde/e gli alberi,/ ho rubato la linfa/da bocche vergini”.

Il poeta che si misura e si confronta con l’infinito, il tutto che egli abita e che lo abita - fibra risibile del cosmo –, fuori e dentro di sé: “Ho specchiato nel cielo (…)/ l’essere mio selvaggio./ La vita/m’ha racchiuso nel cuore l’universo”.

Il poeta, ancora, che si fa “domande assurde”: “Perché i noccioli hanno tessuto/quei fili gialli (…) perché la sera/si attarda in mezzo ai fiori (…) Perché un canto che non sente alcuno /porta la primavera?”; “Chi fecondò lo spazio vuoto al cosmo?/Chi fu?”; “Quante Galassie ancora vuoi attraversare/asfittico pianeta?”

Il poeta, insomma, che cerca il brivido nativo nella “maestosa alta follia dei suoni”.

Ne scaturisce – come si vede – un grande, intensissimo, struggente poema: una sorta di “umana commedia”, un affresco che dà voce a molte sfumature del nostro silenzio, laddove si conosce verità. È un colloquio pungente e profondissimo col mistero indicibile che è in ogni cosa, dentro e intorno a noi: con i segni del tempo e dello spazio. È a queste latitudini che si raggiunge l’alfabeto delle emozioni. I sentimenti elementari. L’essenza della nostra condizione. L’uomo e l’infinita complessità delle sue aporie. Perché la vita è fatta anche di “sillabe confuse”: resta sempre qualcosa (tanto) che non si può dire.

Scrive infatti Onorati: “Dentro di noi sarà rimasto il meglio/inesprimibile”. E ancora: “Sarà tutta la vita/un grido/e come ogni grido racchiuderà l’indescrivibile;/ così come gli amori parlano/col bacio e le lacrime,/ la vita si esprime a singhiozzi/che hanno cadenze inesplicabili”.

Si rinnova in lui la rincorsa alla “lingua indicibile delle cose mute”, che cercano i poeti di ogni tempo. I poeti veri: non i versificatori o i pennivendoli.

La poesia, infatti, è da sempre tesa alla “lingua nominale” delle origini. Una lingua che incorpori l’oggetto, che lo crei nominandolo, che lo manifesti in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide probabilmente con lo stato edenico delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. Che può tuttavia baluginare attraverso le scintille della parola poetica, quando articola il discorso “Altro”, quel discorso che scende – scrive Stefano Agosti – “verso l’abisso su cui la ragione ha intessuto la sua trama rassicurante, che solo la Forma, non il concetto, riesce a lacerare, recuperando proprio dal fondo la forma interna dell’uomo”.

È l’uomo sub specie aeternitatis che Onorati ha dolorosamente conquistato nella parola, e che ci permette di raggiungere allo sguardo. Laddove scopriamo che, sotto la crosta della terra, le radici di alberi diversi sono intrecciate, e nutrite dalle stesse linfe. E che, anche in superficie, i fiumi si snodano, sì, in corsi e percorsi differenti … ma tutti al mare debbono arrivare.

È questa consapevolezza profonda, umile, mai saccente, il dono ultimo che il poeta ci offre nel suo percorso attraverso gli anni, come frutto di un’esistenza autentica e sanguigna, sempre a contatto con le radici, condensata in una parola che è lievito organico, compiuta sintesi tra istinto e ragione, vita e forma, libero slancio e sorvegliata capacità del limite; una parola che, con la sua purezza limpida d’accento, ha la rara virtù di sorprendere e lasciare ammirati, con rinnovato stupore, come fosse ogni volta l’unica, la prima.

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