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martedì 23 febbraio 2010


Il bianco nel rosso del fanale:
la fatale chimera di Campana


Marco Onofrio

Sono trascorsi otto decenni dalla sua morte fisica: un divario sempre più incolmabile. Che cosa resta, oggi, di Dino Campana? Che cosa, oltre la spoglia incenerita del suo corpo, oltre il silenzio buio e freddo della sua tomba? Che fine ha fatto la sua voce biologica, che nessun nastro ha mai potuto registrare? (chissà com’era: forse baritonale, a giudicare dalla corporatura che ci testimoniano le foto – Mario Bejor, testimone diretto, la definisce «stentorea, alternata di toni gravi ed acuti» quando cantava canzoni popolari toscane e nenie raccolte in Argentina, mentre Giacomo Natta, altro testimone diretto, la ricorda «limpida e un po’ lamentosa»; e chissà, soprattutto, com’era legata alle sue parole, alle parole della sua poesia: che effetto faceva ascoltarlo leggersi e recitarsi, Genova ad esempio). Resta pochissimo di tutto questo, quasi niente: se non le parole che egli ha scelto vissuto sofferto scritto e trascritto, per giustificare su un piano superiore la sua esistenza e testimoniare del suo passaggio su questa terra, prima di tuffarsi nel «segreto delle stelle» e raggiungere l’«infinità delle morti». I Canti Orfici sono e racchiudono in essenza tutta la sua vita. Lì c’è la grana della sua voce; la radice del suo pensiero, il cuore del suo temperamento. L’ombra inversa della sua presenza, che non esiste più. Le tracce del suo modo di vedere le cose, dei processi del suo pensiero, dei giri che ha fatto il suo sguardo sulle cose del mondo, prima di spegnersi per sempre.
Dal bisogno disperato di colmare questo abisso attraverso il tempo che tutto divora, nasce il tentativo, altrettanto disperato, di leggere quelle tracce: cioè, più semplicemente, di “ascoltare”. Che è quanto lui stesso ci chiede, nel primo dei tre detti-guida che assumiamo, a mo’ di abbrivo, prima di intraprendere il lungo percorso.

Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha diritto di essere ascoltata.

Diritto più che legittimo: tanto più che si lascia ascoltare da sé, proprio in quel “salire” nonostante tutto. Rivendica, cioè, il diritto di essere trattato con obiettività: che lo si lasci battere «alla pari», per dimostrare né più né meno ciò che vale, se vale qualcosa. Questo è il “gesto” che ci chiede, amichevolmente.

Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari. Sono molto modesto e non vi chiedo, amici, altro segno che il gesto.

Ma è anche cosciente del suo essere diverso: irriducibile.

In ogni caso né da vivo e tanto meno da morto si avrà ragione di me.

Perché infatti è un poeta organico, polimorfico, sfuggente, molto più complesso di quanto sembrerebbe all’apparenza. È sempre “oltre”: non si lascia mai trovare laddove è lui stesso – quasi beffardamente – a farsi cercare, depistando ogni facile intenzione, disarmando ogni approccio semplicistico o riduttivo alla straordinaria intensità del suo caso poetico e umano.
Il suo segreto di longevità risiede forse nella sincerità assoluta della sua vicenda di «fanciullo sacrificale»; nell’aver cioè, egli, messo in gioco tutto se stesso, sempre, senza difese, senza risparmio alcuno nel dono di sé, nell’innocenza della propria offerta votiva, nella ricchezza del proprio essere: anche per questo non c’è nessuno schema (neanche l’orfismo, in fondo) capace di con-tenerlo integralmente. Da vivo o da morto, così, la musica non cambia: Campana resta un selvaggio, uno spirito libero, refrattario ad ogni mutilante classificazione, difficilmente inquadrabile. Non si lascia domare: scalpita, sfugge da tutte le parti, ispido e ribelle. Per questo, a differenza di molti suoi contemporanei, rappresenta un «problema aperto», e davvero, come scrive Mario Lunetta, «tante delle questioni da lui poste e rappresentate non sono ancora risolte e archiviate, attendono ancora risposte attive». Tutt’altro che un caso chiuso, dunque.
Ma occorre partire anzitutto dalla vita: la vita di un uomo che – scrive Sebastiano Vassalli – «fu considerato dai contemporanei un prodotto anomalo della natura, uno che ‘non aveva compreso nulla di quel che è il vivere comune’: ed era solo un poeta. (Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, “primitiva”, “barbara”, da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri)».

Dino Campana nasce alle 14.30 del 20 agosto 1885 a Marradi (in provincia di Firenze, ma più vicino a Faenza: tra i verdissimi boschi dell’appennino tosco-emiliano) dal maestro elementare Giovanni e dalla casalinga Francesca Luti. È il primogenito; seguirà, tre anni dopo, Manlio. La madre, stando alla ricostruzione di Vassalli, è chiusa in un guscio di bigotteria nevrotica. È una donna misticheggiante: tiene sempre il rosario tra le mani. Nega affetto sia al marito (debole e succube della moglie), sia a Dino. Che resta segnato per sempre dal rifiuto materno. Lei lo incalza con rimbrotti, prescrizioni, punizioni, divieti. È convinta che Dino sia indemoniato; e allora gli lascia dappertutto, tra oggetti, libri ed effetti personali, santini e immagini sacre. Dino si infuria, rovescia a terra il contenuto dei cassetti, scaraventa dalla finestra tutte le immagini che trova, mentre la madre gli grida addosso sfilze di contumelie. Probabilmente, malgrado il distacco apparente, è una madre possessiva e apprensiva che non accetta la naturale crescita del figlio: che non sia più il bambino-modello («pacifico, bello, grasso, ricciuto, intelligente») che a due anni «diceva l’Ave in francese», rendendola orgogliosa e «da tutti invidiata». Dino rivendica i suoi spazi autonomi d’azione. Per questo, come un leone in gabbia, comincia ad avvertire la bruciante necessità di evadere, cioè di fuggire, dalla ristrettezza di quell’ambito, familiare e non solo, che lo vuole inchiodare a un ruolo non suo, appiccicandogli addosso un’uniforme; e insomma: farlo essere qualcosa a tutti costi (al limite, “matto”: il matto del paese).
Nel 1903 supera da privatista gli esami di ammissione alla terza liceo all’Istituto “Massimo D’Azeglio” di Torino e frequenta l’anno scolastico presso un collegio di Carmagnola. Quello stesso anno si iscrive, senza profitto, all’università di Bologna, facoltà di chimica pura. Tenta inutilmente la carriera militare presso il 40° Reggimento Fanteria, di stanza a Ravenna. Compie un viaggio avventuroso e vagabondo in Ucraina, forse a Odessa, da cui torna nel gennaio 1904. Tra il 1904 e il 1905 è studente di chimica farmaceutica a Firenze, ma conduce vita solitaria e vagabonda per i monti attorno a Marradi. Legge e scrive con intensità. Si porta dietro libri di Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Nietzsche. E intanto cominciano le visite psichiatriche: deve essere matto per forza. Lui reagisce violentemente, e questo rafforza la convinzione dei compaesani, e la conseguente emarginazione.
Nel 1906 tenta la «grande fuga» dal borgo natìo. Arriva in Francia, ma non ha passaporto e la gendarmeria francese lo rimpatria. Viene internato al manicomio di Imola come «psicotico grave». Lo dimettono dopo due mesi, sotto responsabilità paterna. Torna a Marradi scosso e provato dall’esperienza. Viene dichiarato inabile al servizio di leva: ormai è ufficialmente “pazzo”.
Ottobre 1907: parte per l’Argentina imbarcandosi a Genova. In Argentina fa un po’ tutti i mestieri: da mozzo in mare a peon de via (sterratore delle ferrovie). Poi torna in Europa. Viene imprigionato in Belgio per accattonaggio, poi internato nel manicomio di Tournai. Estate 1908: ricompare a Marradi. Tra i boschi dell’Appennino comincia a ordinare prose e frammenti di poesia: «Nel paesaggio toscano collocavo dei ricordi» – dirà lui stesso. Aprile 1909: 18 giorni di manicomio a Castel Pulci, presso Badia a Settimo.
Firenze, dicembre 1913: conosce Papini e Soffici, ai quali consegna il manoscritto de Il più lungo giorno (incunabolo dei Canti Orfici): Soffici lo smarrisce (lo ritroverà nel giugno 1971 la figlia Valeria, consegnandolo a Mario Luzi). A Firenze notano con sussieguo l’apparizione folkloristica di questo bizzarro giovane, barbaro, selvaggio e «uomo dei boschi»: vibrante di poesia come «scossa elettrica» ma assolutamente privo dei requisiti per appartenere alla società letteraria (bon ton, ipocrisia, eleganza, potere economico)…
1914: a Marradi riscrive il libro, in parte a memoria. Da febbraio a maggio è in Svizzera, a Berna, dove cerca di guadagnare i soldi necessari per la stampa. Ritorna e chiede comuque un aiuto a Luigi Bandini. Il 7 giugno firma il contratto e a luglio il volume, col titolo Canti Orfici, esce in mille copie dai torchi del tipografo locale Bruno Ravagli. In autunno è a Firenze per cercare di vendere personalmente il libro. Nel 1915 è ancora in Svizzera, dove lavora come operaio.
Agosto 1916: conosce Sibilla Aleramo, con la quale inizia uno sconvolgente rapporto d’amore. Si fanno del male, si battono e si graffiano. Lei lo chiama «Orfeo folle» con la sua «vorticosa musica» chiusa in petto. Dino alterna momenti di lucidità a fasi di alienazione e furore. È tormentato da emicranie e forme di delirio.
12 gennaio 1918: varca per sempre la sogna del manicomio, a Castel Pulci. Ormai è pazzo davvero. Si sente pieno di correnti magnetiche, capace di comunicare con tutto il mondo e di influenzare le sorti della storia. Si ribattezza da sé col nome Dino Edison. Subisce l’effetto degli elettrochoc. Diventa buono e calmo, ubbidiente com’era da bambino: un demente-modello. Passa il giorno a leggere e … a masturbarsi. Prepara le polpette per gli altri ricoverati; poi passa tra di loro e fa la réclame alle sue polpette, incoraggiandoli a mangiarle.
La morte. Arriva improvvisa e inaspettata. Malattia di dodici ore e agonia di sei. Febbre alta, chiazze rossastre. Poi viso terreo, sudori, vomito, diarrea, sensorio ottuso. Le mani annaspano, vaneggia inquieto. Spira alle 11.45 del 1° marzo 1932, a 46 anni: per setticemia acuta, che si sarebbe prodotta, pare, pungendosi ai genitali con un ferro arrugginito.

Campana è, quant’altri mai, poeta unius libri. I Canti Orfici sono integralmente la sua vita, perché in quelle parole ha messo tutto se stesso, offrendosi inerme, senza ripari o compromessi. Il libro di una vita: il libro come vita. Si pensi per esempio a queste coincidenze: 29 composizioni che il poeta racchiude e pubblica a 29 anni; la prima s’intitola La Notte, come il buio da cui si proviene nascendo e che vela, a posteriori, i primissimi ricordi della propria esistenza; a 7 testi dall’ultimo c’è Pampa, così come 7 sono gli anni che separano la stampa di Marradi dal viaggio compiuto in Argentina; e il testo centrale del libro, il quindicesimo, s’intitola significativamente Firenze (la città che rappresentava il fulcro esistenziale e culturale di Campana). Coincidenze? Forse. Sicuro invece è lo strettissimo legame di autenticità fra arte e vita, e non in senso estetizzante e/o eroico- dannunziano. La sua poesia è scritta con il «sangue alle dita», così come si apre al destino sacrificale del fanciullo che coprirà tutti col suo sangue, alla fine del libro. Per questo, in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914, scrive «ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto». E, sempre nel 1914, scrive a Papini definendosi «l’alchimista supremo che del dolore ha fatto sangue» (si noti il riferimento agli studi di chimica, peraltro infelici: come il resto). Definisce lui stesso i Canti Orfici la tragedia dell’ultimo “Germano” in Italia: «Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)» che in un Paese degenerato come l’Italia – rovinata dalla “barbarie civile” (Campana parla di «brutalità secolare clericale e popolare») – è destinato all’estinzione, e comunque alla sconfitta. Campana, insomma, cerca idealmente una patria non avendone: si protende «verso il paese nuovo (non putrida patria)» dove assistere alla nascita dell’uomo nuovo, libero, felice, trasfigurato.
Nei Canti Orfici c’è in atto la descrizione della prova che deve affrontare il poeta, a nome di tutti, nel passaggio iniziatico dalla notte al giorno, dalla tenebra alla luce, dal «male di vivere» alla gioia di un’armonia ritrovata. La sua «poesia in fuga» è la trascrizione circolare e aperta, dinamica e cinematografica, ondivaga e sussultante, dell’esperienza che del mondo può fare un nomade (fisico e mentale). Come Don Giovanni con le donne, il nomade soffre nel doversi accontentare di un «qui e ora» volta a volta determinato: vorrebbe essere ovunque, evadere dal carcere dei limiti spazio-temporali per abbracciare la condizione dell’Assoluto, occupando simultaneamente tutto lo spazio e tutto il tempo: come Dio. Conquistare, sia pur faticosamente, la visione stereoscopica del cosmo.
Il nomadismo fisico alimenta quello mentale, così come l’occhio interiore accende a sua volta lo sguardo, de-realizzando il modo di vedere le cose. La realtà visibile viene così trasfigurata, diventa epifanica, ebbra di lucentezza simbolica: il poeta “visivo” si trasforma in “visionario”. Da qui discende quasi naturale il punto topico della poetica campaniana, laddove il poeta parla di «secondo stadio dello spirito», lo «stadio mediterraneo»:

La vita quale è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco. (…) Sì: scorrere sopra la vita: questo sarebbe necessario, questa è l’unica arte possibile.
Ed ecco il “sogno” come concetto-ponte che permette di scorrere sopra la vita, abbracciandola interamente, al di là dei limiti del viaggio: elemento osmotico e mercuriale fra tempo-eterno, mutamento-permanenza, divenire-essere, vita-forma. Ed ecco, ancora, il mito del «manoscritto perduto» come compensazione allo scacco del principium individuationis (da cui il nomadismo): il mondo come archetipo del libro. Giacché ogni scrittura è sempre traduzione imperfetta, sbiadita, inefficace dell’Idea: sempre inferiore alla totalità espressiva del dicibile. C’è un divario pressoché incolmabile rispetto al «libro del mondo», all’assoluto inafferrabile della Forma.
Il «sogno della vita in blocco» può liberare un Assoluto evocato sempre dal «di qua»: entro gli stessi limiti fisici dai quali vorrebbe fuggire. D’altra parte, l’estasi è incomunicabile: se anche il poeta riuscisse ad abbracciare il Tutto o l’Eterno, gli mancherebbero parole per descriverli. Le parole umane sono sempre relative. Solo il silenzio, forse. Infatti Campana, così come del «qui e ora», non riesce ad appagarsi di una forma (con la f minuscola). Sente che la scrittura nasce da uno stato di perdita: dal faticosissimo inseguimento dell’Assoluto, della sua Chimera. A questo disagio dà corpo e voce col mito del manoscritto perduto, che gli occorre quasi a proposito: lì proietta e aggancia l’idea della Forma (con la f maiuscola), cioè di una ricostruzione totale del sé attraverso la scrittura. Si costruisce il feticcio di un se stesso pienamente realizzato nella scrittura, almeno una volta: compimento svanito per mala sorte, e per incuria dei suoi nemici fiorentini: qualcosa di cui i Canti Orfici recherebbero soltanto echi, frammenti, ricordi vaghi, pallide tracce.
In realtà Campana non ricostruisce a memoria, ma lavora su minute, abbozzi, copie conservate. Ed è, peraltro, uno sforzo di concentrazione che giova al testo: i Canti Orfici risultano nettamente più maturi e compiuti de Il più lungo giorno. E poi l’originale non è Il più lungo giorno, quanto piuttosto il libro eterno del mondo, con i segni del quale Campana entra a colloquio, in attesa della loro rivelazione epifanica: il linguaggio dell’universo, la musica del vento e del mare, il frastuono e il brusio dell’esistenza e il lavoro dell’uomo (l’uomo immerso nei cicli della natura, la vita che «non chiude»):

Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.

Per questo intrattiene un rapporto privilegiato, di suggestione, di fascinazione, di irresistibile attrazione magnetica, con quella sorta di umbilicus mundi, di fonte archetipica, che egli riconosce in ogni luogo dell’universo, donde vede sorgere e tornare i segni della Forza, la spaventosa e ignota energia della vita, la potenza del divenire: elevando inni dionisiaci alla “creazione”, alla “forza” appunto, all’«anima vivente delle cose», e alla purezza dell’elemento tellurico.
Il progetto messo in atto nei Canti Orfici è dunque quello di comprendere l’essenza di se stessi e del mondo ai livelli più profondi dello spirito. L’arte rivela e vela al tempo stesso la dimensione superiore ed elementare dell’essere. Il simbolismo autentico coincide col vero realismo.
Occorre riscoprire le sorgenti divine dell’uomo, la «scintilla cosmica» del Sé (oltre i limiti dell’Ego), l’io profondo e metapsichico che si attinge nell’atto autenticamente creativo, dove risolvere infine il contrasto fra essere e non essere. Tra le righe dei Canti Orfici s’indovinano le tracce di una «filosofia edenica», realizzabile praticando l’eraclitea «armonia dei contrari». Scrive infatti Campana:

Nel fuggire la stretta oppressione dei contrari si crea l’arte.

L’Eden è il paese della Chimera, eterno e profondo, dove «Io è un altro» perché si perde, desoggettivandosi e abbracciando le profonde radici dell’essere. È lì che tutto può «per un momento almeno ritornar divinamente semplice e uno», e che ci si può sentire «una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome». È da lì che viene il «ricordo che non ricorda nulla», e la musica dolce del ricordo di cui però non si ricorda «neppure una nota», pur sapendo che «si chiama la partenza o il ritorno». Nel paese della Chimera regna e vive, come materia e anima incarnata, la lingua delle origini, dove ogni nome coincide con la cosa. È a questa dimensione, concreta e metafisica al contempo, che aspira il cammino di riconciliazione con il mondo e di superamento del principium individuationis, mediante il potere magico e mantico del suono, della musica, del canto. Recuperare il canto come unione armonica di parola e musica consente di recuperare l’uomo nella sua perduta integrità, nella sua mitica e naturale pienezza espressiva. Per questo Campana chiama orfici i suoi canti.
Lo spazio della poesia come «ultima spiaggia», sorgente di nutrimento spirituale, confine estremo di liberazione, veicolo di compensazione dal disagio della civiltà, e ritorno delle energie rimosse. L’opera come iter salvifico, «piccolo Faust» dalle tenebre della notte al «Più chiaro giorno di Genova», che è tentativo di traduzione del «sogno della vita in blocco». Diventare orfici in Dioniso: riconquistare la primordiale unità attraverso la tenebra della disarmonia, il deserto dell’afflizione, la «notte orficodionisiaca». Campana dice: «la lunga notte piena degli inganni delle varie immagini».
La poesia è “vitale”, cioè nasce dalla febbre della vita. È forma imbevuta di vita, ardente e proteiforme di energia. L’ideale poetico di Campana nasce all’incrocio fra vita e forma, fra apertura e cornice, fra tenebra simbolistica e clarté naturalistica, fra avanguardia e tradizione. L’arte d’avanguardia nasce dal bisogno di offrire forme simboliche alla tecnologia, cioè di rispondere positivamente allo sviluppo meccanico ed elettrotecnico del mondo contemporaneo: vuole fondarsi sul «violento groviglio delle forze nelle città elettriche» (lettera a Papini, maggio 1913). La poesia sorge dalla «febbre elettrica del selciato notturno». Ma il macchinismo e la nuova tematica urbana si collocano in un orizzonte più vasto di trasfigurazione, che dialoga con i segni del cosmo, fra tempo ed eternità. Il percorso di Campana aspira alla liberazione orfica, alla dinamica ascensionale verso una più vera patria (ad es. il Mediterraneo) dove abbracciare, come in Genova, il «più alto palpito» dell’armonia riconquistata. Così, il germano di razza mediterranea, nel suo continuo pendolare fra dionisiaco e apollineo, come a dire fra vita e forma, può apprezzare e, anzi, elevare a ideali poetici due composizioni che egli stesso percepisce agli antipodi: Gilnàra di Montano «cupa profonda orgiastica folle come una musica di zingaro» (lettera a Lebrecht, 26 ottobre 1917), e Dianora di Luisa Giaconi, dove «la strofa liberata dalla multiforme catena, con due o tre assonanze elementari ritenta un più puro amore delle luci e delle forme», esprimendo la sensibilità neo-greca della «vera poesia italiana moderna» (lettera a Novaro, maggio 1916).
Ma forse il suo vero ideale lo esprime a proposito di Anacleto Francini (lettera a Papini, 1915):

Le cose che egli mi ha mostrato rispecchiano la più viva sensibilità moderna pur restando nella linea della più pura tradizione italiana.

Esattamente quanto si era proposto di realizzare con i Canti Orfici. Aprirsi alle suggestioni moderne senza però tradire «quella saldezza della tempra aristocratica che è necessaria per salvare il carattere della letteratura», ovvero l’ideale sublime e alto della grande tradizione toscana (Dante, Petrarca, Leonardo, Michelangelo, Carducci). Anche per questo sceglie Orfeo: perché gli torna utile come «terza via», di sintesi, tra Dioniso e Apollo, per evocare e realizzare la

divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche.

Il sogno vero è plasticità della musica, è concretezza dell’astratto, è realtà metafisica. Infatti Campana è un visionario dell’al di qua: non fotografa una realtà “altra”, ma fissa i principi fondanti della vita «quale è» (il «panorama scheletrico» al di sotto delle fugaci apparenze) per darne una sorta di giustificazione e interpretazione finale.
Ed ecco Genova: la composizione finale del Libro, sia ne Il più lungo giorno che nei Canti Orfici. Il traguardo estremo. L’orizzonte insuperabile. Una delle più intense poesie del Novecento mondiale.
Se il «più chiaro giorno» è il traguardo del viaggio iniziatico e la traduzione del «sogno della vita in blocco», Genova rappresenta il momento in cui quel traguardo sta per essere raggiunto. Si riverbera sulla pagina il senso di un’attesa ansiosa ma fiduciosa per una rivelazione sempre più imminente. L’anima partita si appresta a tornare alla luce da cui era stata separata dall’atto violento del nascere.
Il tempo è sospeso: la nube si è fermata nei cieli. Il sogno è già «arcanamente illustrato»: la realtà è pronta a svelarsi e l’io, divenuto finalmente ricettivo, può uscire dal buio labirinto dei vicoli genovesi per disporsi, in una vasta visione marina e solare, a ricevere la rivelazione suprema.
Basta alzare gli occhi al cielo stellato per innescare la giusta disposizione al compiersi dell’Evento, teatralmente preannunciato dai puntini sospensivi. Ed ecco la celebre quarta strofa. Le stelle: simboli metafisici come le «Chimere nei cieli»: testimoni dell’eterno destino dell’uomo, della «vicenda infaticabile/de le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale»: il corso millenario dell’uomo e del tempo che passa, come il sogno di un’ombra, in un mondo che gli sopravvive. Le stelle-Chimere evocano una salvifica «visione di Grazia», finta dal vento salmastro, che dovrebbe infine coincidere con la definitiva sospensione del tempo per il momento eternamente presente del «più chiaro giorno». L’apparizione è affidata alla musica: il significato ordinario è scompigliato e destrutturato, anche a livello sintattico, per la ricerca faticosa di un “sovrasenso” che ci parli di un’altra dimensione. E il testo diventa inafferrabile, ai limiti dell’afasia. La «visione di Grazia» appartiene a un mondo radicalmente altro, le cui porte vengono appena socchiuse ma restano invalicabili anche per il poeta.
Torniamo alla «vicenda infaticabile» che si svolge «dentro del cielo». È la vita, il mistero dell’esistenza sintetizzato in due potentissimi emblemi: nuvole e stelle. Noi stessi siamo infaticabilmente implicati in questa “vicenda”, crocifissi tra il piano del tempo (le nuvole) e il piano dell’eterno (le stelle). Le nuvole scorrono evanescenti, bianche e fantasmatiche, sotto il velluto nero del cielo notturno, trapunto di stelle, che brilla tra gli squarci del loro passaggio. Anche noi scorriamo come nuvole d’ombra rispetto al «bagliore magnetico» delle stelle, che raccontano con parole di silenzio l’«infinità delle morti». La dimensione delle nuvole (anche se “spiano” il mistero) è quella del naturalismo (la vita «quale è»); le stelle sono veicoli di misticismo; la quintessenza del «sogno della vita in blocco» è rappresentata dal sintagma «dentro del cielo», attraverso cui Campana realizza una nuova dimensione del mondo come praticabilità fluida e aperta, derivante dallo «scorrere sopra la vita» come «unica arte possibile» oltre la «stretta oppressione dei contrari». Ed è solo uno degli indizi di penetrazione assoluta della realtà, che Campana mette in opera nella rivelazione in fieri della quarta strofa, non a caso caratterizzata da cinque “interni”:

- Dentro del cielo serale (v. 56)
- Dentro il vico marino (v. 57)
- Dentro il vico (v. 58)
- Dentro silenzii solenni (v. 79)
- Dentro del cielo stellare (v. 86).

«Dentro del cielo» realizza il paradosso di un interno inesistente, perché cercato e scavato dentro la maggiore esternità; e dunque la circolarità biunivoca fra gli opposti dell’interno e dell’esterno, del finito e dell’infinito, del tempo e dell’eterno. Il mondo è dentro il cielo; il cielo a sua volta è dentro il mondo. Così come «dentro del cielo stellare» siamo immersi noi; e il cielo stellare è dentro di noi. Campana sviluppa e porta avanti in parallelo questi due piani della realtà (quello della dissipazione dionisiaca: naturalistico, spaziale e materiale; e quello della concentrazione apollinea: psicologico, temporale e concettuale) che poi, nella realtà astratta della scrittura, trovano la loro interconnessione continua e fluida su un terzo piano, “sovramentale”, cioè oltresensibile, onirico, metafisico, verso il traguardo di una trasfigurazione “orfica” (apollinea e insieme dionisiaca) del mondo e dell’uomo. Emerge così in superficie il riflesso di un «tempo senza tempo» (che però racchiude e distilla tutto il tempo: oltre l’impaccio del suo scorrimento diacronico, così come, all’altro estremo, oltre la sua negazione in eternità, in struttura sospesa e potenziale) attraverso la dimensione sintetica e sublimata di uno «spazio senza spazio» raggiunto al cuore del «panorama scheletrico» e, ancora, oltrepassato ab imis, fino al fondo primordiale della sua creazione. Che cosa c’è dentro l’incubo della materia opaca? Forse il varco per la più grande luce: la luce della luce, l’essenza della luce: il chiaro che non è di questo mondo. È a tale origine che cerca di attingere il Mito. Un discorso simile riguarda il rapporto fra cultura e natura. La cultura polverosa dei libri cerca il contatto vivificante con la natura, aprendosi al flusso cosmico e ondivago della sua energia fondamentale; la natura a sua volta è chiamata a “riscattarsi” sul piano evolutivo superiore garantitole dall’assimilazione dei segni umani (arte, memoria, storia). L’obiettivo finale è una sintesi alchemica ottenuta per profonda unità metafisica, attraverso cui la cultura ritorni, al colmo della sua sublimazione, natura trasfigurata e riconciliata, portatrice di nuova armonia universale. Natura e cultura insieme: raccolte al vertice sommo delle loro potenzialità, per innescare la grande vampata trasfiguratrice in grado di cambiare lo sguardo all’uomo, e dunque il volto visibile al mondo. È questo il significato orfico del «sogno della vita in blocco».
Ma ecco che il sogno orfico si disfa nell’ultima visione felice, il «grande velario/di diamanti disteso sul crepuscolo»; poi il sole intesse un “sudario” (versione funebre dell’iniziale “velario”) per gli «uomini stanchi», e i viaggiatori, che poco prima si avventuravano fiduciosi per le piazze e le vie di Genova, tra schiamazzi di fanciulli (simbolo positivo di gioia e innocenza ritrovata), ora si trasformano in “ombre” e camminano «terribili e grotteschi come i ciechi».
Il Mito, insomma, si spegne con gli ultimi bagliori del crepuscolo. Il poeta ripiomba nel carcere del tempo. Torna la notte da cui i Canti Orfici avevano preso le mosse. Resta solo l’ultimo fotogramma, la sterminata devastazione cosmica del cielo stellato sulla notte tirrena, nel quale annega in dissolvenza lo sguardo del poeta… Il viaggio della poesia va fatalmente da notte a notte; ogni illusione salvifica è destinata a concludersi nel sangue sacrificale del Fanciullo, raggrumato nel colophon da Withman.
Campana sente di far parte della race of rangers whitmaniana, la «razza dei liberi cacciatori» massacrata a tradimento da un mondo meschino, volgare e violento, che non può e non vuole accogliere le istanze spirituali dell’uomo, la voce originaria della poesia. Cerca di trovare un accordo cosmico fra i tempi storici e i tempi biologici, cioè di assorbire in una più vasta unità universale le manifestazioni e gli effetti generati dal “progresso” nei campi della scienza, della tecnica, della produzione. Può anche provare momentanea esaltazione per lo slancio creativo e il vigore dinamico che si manifestano nell’uomo con l’elettricità, il cinema, il fervore delle navi, dei porti, delle gru, dei tram, dei treni, degli aerei ... Così come per le energie grandiose della terra, del cielo e del mare, degli elementi naturali, nel libero giuoco delle forze fenomeniche del mondo. Ma Genova si conclude con un distacco inequivocabile che sa di nausea, di rifiuto, di sconfitta: la forza culla la «tristezza inconscia» di un futuro non proprio rassicurante (pensiamo che i Canti Orfici vengono stampati negli stessi giorni dell’attentato di Sarajevo e in coincidenza storica con l’inizio della Prima Guerra Mondiale), e così il ritmo è affaticato, e la nube delle ciminiere è un «vomito silente».

Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.

Il colophon da Withman è un atto d’accusa (un modo per dire: voi vi siete macchiati del mio sangue innocente) contro un mondo che lo aveva coperto di sputi – lui, semplice poeta – ma che, soprattutto, avrebbe consentito il massacro generazionale dei “boys”, dei fanciulli sacrificali, sull’altare truculento della Storia.
È anche questo, forse, il significato ultimo della «visione di Grazia», bianca e lieve tra le ali rosse dei fanali.

Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca …
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì …

La «visione di Grazia» è la poesia nel mondo contemporaneo, che lotta faticosamente contro l’invadenza del disumano per mantenersi bianca (cioè pura), e lo è già a stento nel rosso del fanale che la inghiotte, e allora è costretta a salire “su” per abbracciare la dimensione dell’eterno (il cielo stellato) in cui soltanto può sopravvivere. Altrimenti detto: è vano l’esorcismo della modernità, il disperato tentativo di recingere uno spazio in cui la poesia possa resistere all’onticizzazione dell’individuo nella società di massa tecnicizzata (con le sue spietate leggi economiche), e durare come un canto di eternità dell’Uomo nella «Nuda mistica in alto cava/Infinitamente occhiuta devastazione».

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